“Così si cala il sipario sulla storia della sinistra italiana”. Massimiliano Panarari, sociologo e saggista, non ci gira intorno. Quando Goffredo Bettini, il “Richelieu” del governo rossogiallo, auspica un’alleanza organica fra Pd e Movimento Cinque Stelle e individua nel premier Giuseppe Conte il suo garante a tempo indeterminato, “sta inaugurando la Terza Repubblica”.
Professore, ma non era già stata inaugurata?
No, qui entriamo in un campo inesplorato. Bettini si conferma un fine stratega, il teorico di spessore dell’alleanza organica rossogialla, e vuole traghettarla altrove.
Dove?
Verso un’alleanza strategica. Bettini prende atto che il populismo è un elemento genetico del sistema politico italiano post Tangentopoli. È convinto che la cultura politica di fondo dell’Italia degli anni ’10 e ’20 sia una cultura populista, e vuole farne un tratto integrante di un nuovo polo. È realpolitik allo stato puro. Così facendo, però, sotterra un tassello imprescindibile del dna dem: il riformismo.
Perché?
Perché, semplicemente, non è conciliabile con il populismo insito nel dna dei Cinque Stelle. Lui stesso riconosce un “riformismo debole” della sinistra italiana. Ma, invece che spostare l’asticella nella direzione opposta, individua una via d’uscita in un processo di fusione con i pentastellati. Un polo unitario, in prospettiva anche un partito.
Che partito?
Difficile dirlo. Sarebbe un corpo estraneo al centrosinistra come lo conosciamo oggi, fondato su due presupposti. Il primo: la natura profondamente camaleontica del Movimento Cinque Stelle. Il secondo: una presa d’atto di estremo realismo, riassumibile in un motto anglosassone, “Tina”, There is no alternative.
Eccone un terzo: rinunciare a scegliere un proprio premier.
Esatto. È questo forse il segnale più eloquente di una trasformazione profonda del Nazareno. Fin dai tempi dell’Ulivo e poi del Pd, i dem hanno scommesso sulla leadership di figure chiaramente collocate in una cultura politica riformista, da Romano Prodi a Carlo Azeglio Ciampi. Conte ha dato prova di grande flessibilità politica, ma non appartiene a quel mondo. Puntare su di lui significa abdicare deliberatamente ad essere la forza di governo principale.
Forse davvero non ci sono alternative. Conte oggi sembra l’unico che può garantire la governabilità.
Qui non ci muoviamo nell’ambito della governabilità, ma del governismo. Il Pd non solo rinuncia alla volontà di esprimere un suo candidato premier, ma anche a lasciare un segno su questo governo. Non si pone neanche il tema di cambiare i rapporti di forza. Ovviamente questo disegno non trova d’accordo con Zingaretti e Bettini una parte della minoranza riformista del Pd.
E chi trova d’accordo?
Ci sono tanti sponsor. In fondo nelle parole di Bettini leggiamo le stesse suggestioni presenti in Beppe Grillo, quando rivolgendosi ai giovani del Pd parlava di una grande ricomposizione all’insegna della rivoluzione verde. Ma anche ad altri alti ufficiali di rango fra i dem, come Orlando o Franceschini.
Bene, ora passiamo agli ostacoli.
Non ne vedo di sostanziali. Credo che il piano di Bettini si imporrà. Rimane un punto interrogativo sulle divergenze interne al Movimento, di una componente sovranista e nostalgica dell’esperienza gialloverde da una parte, e di una barricadiera e pasionaria dall’altra. Ma sappiamo anche che le geografie grilline sono molto labili, come dimostra la repentina conversione contiana di Alessandro Di Battista.
Alle regionali il piano Bettini può già andare in scena?
Le regionali, con tutte le peculiarità legate al territorio, ci diranno qual è l’umore del Paese all’indomani di questa catastrofe economica e sanitaria. Certo i precedenti non sono benauguranti per l’esperimento di Bettini. L’Umbria, a distanza di nove mesi, resta un feedback negativo. Ma di acqua sotto i ponti ne è passata, e quella che all’epoca era nata come un’alleanza quasi casuale oggi si è consolidata.
Comunque vada a settembre, il vero test di prova è più in là, quando si sceglierà il prossimo inquilino del Quirinale.
È così. Dopotutto, anche questa tensione verso l’elezione del presidente della Repubblica è un segnale. L’unico orizzonte è tracciato dai rapporti di forza fra alleati, dalla realpolitik.