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Regioni e Comuni portano sempre a Roma? La riflessione di D’Ambrosio

Mentre l’Italia misura le distanze balneari e non solo, quelle elettorali si accorciano sempre più. Sono i giorni della formazione delle liste e individuazione di alleanze per le prossime elezioni: l’Italia a settembre va al voto in sei Regioni e 1149 Comuni, di cui 18 capoluoghi di provincia e 3 di Regione. Tranne pochissime eccezioni, non si prevedono novità di rilievo: un proliferare di liste civiche, candidati sindaci e consiglieri, un complesso e, spesso, contraddittorio rapporto con le segreterie regionali e nazionali dei rispettivi partiti e movimenti, l’ambiguità dei pentastellati (che ricorda quella di alcuni socialisti, al governo con alcuni e nel territorio con altri: nulla di nuovo sotto il sole!).

Due problemi emergono nel panorama generale: l’influenza mediatica, in rapporto alla carenza formativa degli elettori e il rapporto dei politici nazionali con la sfera nazionale. Con una determinante potenza mediatica molti candidati attirano gli elettori perché sono capaci di intercettare bisogni primari (lavoro, sicurezza, paure degli immigrati, buoni spesa), aspirazioni diffuse (populismo e nazionalismo, successo facile, religione accomodante e razzista) e a promettere – a vanvera – di poterli realizzare. Quindi l’elettorato non è molto preparato, spesso chiude un occhio (se non due) sulle tante crepe e contraddizioni del candidato, specie di tipo etico e programmatico e, in generale, si fa facilmente abbindolare. Non vale per tutti, ma per una buona parte si. Finché le agenzie primarie non formeranno seriamente i cittadini alla politica andrà sempre peggio.

Riguardo al rapporto locale-nazionale sembra esserci una legge generale: quanto più la lista o coalizione è radicata nel territorio, tanto più è lontana dai grandi proclami dei referenti regionali e nazionali. La gestione della crisi sanitaria è stata una delle tante prove. Ciò conferma – a mio avviso – una tendenza sempre più costante: la qualità etica e tecnica dei politici locali, in media generale, è migliore di quella dei politici nazionali, specie quando il rapporto con il territorio è forte e motivato. Purtroppo, però, alcuni politici regionali sono in una sorta di dilemma: approdare a Roma o lavorare per il territorio? A questa domanda dovrebbe rispondere la campagna elettorale, anche se sono convinto della quasi impossibilità a farlo. Non a caso li votiamo perché facciano una cosa e buona, non per avere un piede in loco e uno altrove. Mi sono sempre chiesto come è possibile far bene, ad un tempo, il parlamentare europeo o italiano e il sindaco o consigliere, l’assessore e il presidente, avere un incarico istituzionale locale e, al tempo stesso, uno politico nazionale, oppure il presidente o sindaco conservando importanti e strategiche deleghe. Da che Berta filava è saggezza ricordare che bisogna assolvere a un compito alla volta e bene; del resto l’attivismo e il considerarsi unici e indispensabili non ha fatto mai bene a nessuno, tanto meno alla cosa pubblica.

Negli ultimi anni è anche aumentato, a dismisura, il numero di candidati sindaci e presidenti, nonché consiglieri, ponendo forti dubbi sulla loro qualità etica e tecnica. Non sfugge che sono in tanti oggi a iniziare un impegno politico o istituzionale senza possedere un minimo di formazione umana, etica e politica. La storia dei due maggiori partiti italiani (la Dc e il Pci) mostra, con dati incontestabili, che nel momento in cui questi partiti (come altri) hanno smesso di preparare tecnicamente e moralmente i loro quadri, l’incompetenza, l’inefficienza e l’immoralità sono passate da fenomeno circoscritto a livello individuale, a vero e proprio sistema di vita.

Le carenze formative pongono tutti i candidati al rischio di essere trappole delle forze più becere del nostro territorio: infiltrazioni mafiose, corruzione, insensibilità verso i problemi sociali e degli ultimi, delegittimazione politica e sociale delle istituzioni, populismi e nazionalismi, movimentismo irrazionale e inconcludente. Già Bismark insegnava che più si è sprovveduti e più si rischia di essere corrotti.

La carenza formativa trasforma oggi un po’ tutti i partiti e movimenti in feudi di potere, dove si lotta all’ultimo sangue per occupare e conservare poltrone. Sono i giorni i cui molti feudatari sono a caccia di candidature e a tramare, in genere nell’ombra. Ovviamente la finalità è vincere: si chiude un occhio su programmi e principi etici, si accolgono transfughi e camaleonti dell’ultima ora (atteggiamento sempre più diffuso), si rimandano i nodi fondamentali al dopo, si acuisce la conflittualità con ogni mezzo (specie calunnie e minacce), si mina l’unità interna, si sprizza spocchia e cinismo.

Ma ci sono eccezioni, un po’ ovunque. Non molti, ma pochi e buoni, hanno dimostrato come è possibile, con molta fatica, escogitare i migliori mezzi perché il nome del candidato sia l’ultima fase del processo. Hanno testimoniato come la politica prima di essere occupazione del potere, è luogo di incontro e confronto per pensare e decidere programmi da proporre e politiche da attuare, serie e concrete; non con riferimenti stucchevoli, retorici e inconcludenti. Riusciranno questi pochi a convincere gli elettori?

Un secolo fa Max Weber divideva i politici in due gruppi: c’è chi vive “di politica”, cioè per tornaconto economico personale e vanagloria autoreferenziale, e c’è chi vive “per la politica”, cioè pronto a sacrificarsi onestamente per la comunità civile. È qui tutta la differenza.

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