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Da Roma a Washington, così la globalizzazione (non) ha cambiato l’intelligence

Da braccio operativo di poteri occulti a punta di lancia del sistema della sicurezza, da “Servizi segreti” a servizio per i cittadini. Se in Italia l’opinione pubblica ha rivalutato e sdoganato l’intelligence è anche grazie a chi, da anni, la racconta. Come Mario Caligiuri, presidente dells Società italiana di intelligence (Socint), tra i più prolifici e noti saggisti e studiosi del mondo delle “barbe finte”, cui ha dedicato anche la sua ultima fatica editoriale.

Si chiama “Intelligence studies. Un’analisi comparata tra l’Italia e il mondo angloamericano” (Rubbettino), scritto insieme al professor Giangiuseppe Pili, altro peso massimo del settore oggi alla Dublin City University. Il testo, pubblicato da Rubbettino nella collana del Laboratorio sull’Intelligence dell’Università della Calabria, offre una panoramica del  mondo degi 007 nei Paesi che hanno consacrato la professione nell’immaginario cinematografico e letterario, il Regno Unito e gli Stati Uniti, e fa una tara fra lo stato dell’arte degli studi sull’intelligence nel mondo angloamericano e quello italiano.

La parentesi temporale presa a riferimento è relativamente ristretta, dieci anni. Eppure la disciplina e il settore nell’ultimo decennio hanno attraversato una vera e propria rivoluzione. Dalla globalizzazione alla riforma dei Servizi, dall’ascesa sullo scenario internazionale delle multinazionali finanziarie all’inflazione informativa via web, fino alla lotta al terrore in Europa e all’incombere di tecnologie transformational come il 5G e l’Intelligenza artificiale, l’intelligence ha dovuto aggiornare radicalmente metodi, mezzi, obiettivi.

Con l’aumento delle minacce il lavoro del sistema della sicurezza si è intensificato, ma è anche stato pubblicizzato come mai prima era successo per sfatare falsi miti e instaurare un rapporto di fiducia fra “protetti” e “protettori. Così, scrivono gli autori nella premessa, l’intelligence “da luogo oscuro dello Stato è diventata quasi un’arma segreta delle democrazie per contrastare il terrore; da tradizionale sistema di previsione del futuro viene ora considerata un necessario strumento di interpretazione del presente; da metodo per pochi si è estesa a un processo di trattamento delle informazioni indispensabile per tutti”.

Di qui due trend che hanno segnato il percorso di evoluzione tanto nel mondo anglosassone quanto in quello italiano ed europeo. Il primo apparentemente in linea con la “globalizzazione” delle minacce: oggi molto più di ieri, l’intelligence non si può fare da soli. La cooperazione internazionale è ormai una necessità anche per un mondo che, per antonomasia (ed ovvie ragioni) non sempre si presta al lavoro di squadra (non a caso, a fronte dell’ “interesse nazionale”, non è ancora stato coniato il termine “interesse internazionale”, di per sé una contraddizione). Eppure gli attentati di Charlie Hebdo e poi del Bataclan, il terrorismo jihadista che ha attraversato in lungo e largo l’Europa, hanno messo a nudo l’impellenza di una qualche forma di cooperazione fra le intelligence europee e anglosassoni che, sia pur non sempre a livello “operativo”, sta lentamente prendendo vita (su Formiche.net abbiamo raccontato da Zagabria la nascita dell’Intelligence college in Europe).

Il secondo trend, in controtendenza: il fatto che la tecnologia in questi dieci anni abbia fatto passi da giganti non significa che l’intelligence, oggi, possa fare a meno dell’elemento umano, anzi. I due autori nel libro citano più di un esempio, fra cui quello del Mossad, celebre agenzia dei Servizi israeliani per l’estero che “sta assumendo contemporaneamente hacker e laureati in filosofia”.

È uno dei tanti luoghi comuni che vengono sfatati in questo agile ma rigoroso manuale per addetti ai lavori e non che, senza pretese di esaustività, si candida a colmare un gap importante nella letteratura scientifica sul mondo dell’intelligence, troppo spesso chiusa nel suo giardino di casa.


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