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L’Italia, la Russia e le ombre cinesi. La versione di Fiona Hill

Una prova, quella della pandemia, è stata superata “nel migliore dei modi”. Un’altra, ancora più insidiosa, resta da superare. Fiona Hill parla dell’Italia, dei suoi mesi di passione, con un filo di commozione. Senior fellow alla Brookings Institution di Washington DC, per tre anni Direttrice per la Russia e l’Europa al National Security Council con l’amministrazione di Donald Trump, Hill è una delle massime esperte al mondo di Russia e su questo, fino al luglio di un anno fa, ha consigliato il presidente degli Stati Uniti.

In questa intervista esclusiva a Formiche.net spiega le insidie geopolitiche che attendono l’Italia all’indomani dell’emergenza che “Conte ha gestito molto bene”. Il Paese non deve schierarsi in una Guerra Fredda, ma neanche “diventare vassallo” della Cina, perché il rischio, durante una delle più gravi crisi economiche di sempre, c’è ed è concreto. L’esperta americana ripercorre il suo anno lontano dalla West Wing, la sua testimonianza al Congresso durante il procedimento di impeachment al presidente per il caso Kiev-gate, che le ha attirato mesi di minacce anonime, insulti. E sulla Russia di Vladimir Putin dice: non è come la Cina, dobbiamo parlarci.

Fiona Hill, siamo entrati in una nuova Guerra Fredda con la Cina?

Dobbiamo evitarlo, in tutti i modi. Oggi la Cina è una potenza in ascesa, e rappresenta una minaccia sistemica per gli Stati Uniti. È vero, a livello regionale è molto concentrata sul Pacifico e l’Asia, ma ha una rete globale che si spinge dall’Artico all’Antartide. Con la Guerra Fredda il mondo era diviso in blocchi ben definiti, oggi non si deve ripetere, con la Cina bisogna trovare un dialogo. Ci abbiamo provato anni fa, introducendola al Wto, al G20 e in tutte le istituzioni finanziarie multilaterali. Purtroppo ha deluso le aspettative, ora non dobbiamo fare sconti. Ma ci sono grandi tematiche del nostro tempo, come il cambiamento climatico, l’energia sostenibile, lo sviluppo tecnologico e la ricerca medica, dove semplicemente non possiamo fare a meno della Cina.

L’Italia ha da sempre l’ambizione di fare da pontiere fra Occidente e Oriente. Meglio fare una scelta netta?

Credo che i rapporti dell’Italia con gli Stati Uniti siano solidi e ben radicati. Non dovremmo “scegliere da che parte stare”. Ma non possiamo neanche ignorare i rischi di una relazione troppo stretta con la Cina. Non penso che l’Italia voglia divenire un vassallo di quel Paese. Nel mezzo di una crisi economica senza precedenti, il rischio è concreto. L’unico modo per evitarlo è rimanere insieme fra alleati. Se riusciamo a mitigare i rischi derivanti da pratiche commerciali predatorie o dalla rete 5G, non ci sarà bisogno di schierarsi. Il motto della Guerra Fredda, “o sei con noi o sei contro di noi”, non deve più tornare.

In questi anni alla Casa Bianca ha avuto una panoramica d’eccezione sulla politica estera americana. Come è cambiato il ruolo dell’America nel mondo con questa amministrazione?

Il ruolo dell’America, la capacità di lavorare con gli alleati, sono cambiati molto prima, con l’amministrazione Bush, poi con Obama. All’ondata di solidarietà internazionale dopo l’11 settembre è seguita una grave frattura, quando il nostro Paese ha deciso di andare in guerra in Iraq. Ricordo ancora lo sdegno degli esperti francesi, che negavano l’esistenza di armi nucleari irachene, i manifestanti a Londra, la resistenza della Turchia verso le truppe americane. Con la fine della Guerra Fredda, la lotta al terrorismo, l’ascesa di Al Qaeda e dell’Isis, la crisi libica, è cambiata la nostra percezione delle minacce comuni. Con l’amministrazione Trump tutto questo è accelerato.

Come?

Il presidente ha dedicato particolare attenzione ad alcune tematiche, come il commercio, e soprattutto la Cina. Non è stato facile provare a cambiare le prospettive degli alleati. Lo vediamo ancora oggi in Italia: alcuni politici italiani hanno una visione peculiare della Cina, dei rischi alla sicurezza derivanti dal 5G e da Huawei. I rapporti fra Roma e Washington rimangono saldi, ma oggi ci sono tanti punti di divergenza.

Cosa si può fare per accorciare le distanze?

Dobbiamo capire l’importanza di camminare insieme. Fare un passo indietro, ricucire dove abbiamo strappato. Lavorare più e meglio con i nostri alleati, a tutti i livelli. Deve partire anche dall’Europa. Ci vorrà tempo, e fatica.

Lei è conosciuta come una delle massime esperte di Russia al mondo. Cosa possono fare gli Stati Uniti, cosa può fare l’Occidente per reiniziare a parlare con questo Paese?

Per prima cosa, avviare una discussione su come impostare i rapporti diplomatici. Ci sono persone, partiti, anche in Italia, che vogliono lavorare da vicino con la Russia. Ben venga, ma prima dobbiamo chiederci che tipo di relazione vogliamo costruire. Si parte da una constatazione: oggi l’Occidente non è più in uno scontro geopolitico frontale con la Russia. Chi ancora propina questa tesi vive nel XX secolo. Il vero rivale sistemico è la Cina.

La Russia non è più una minaccia?

Lo è, sotto tanti profili. C’è il tema del controllo delle armi. E sia Stati Uniti che Russia hanno le capacità militari e nucleari per distruggersi a vicenda. Ma la minaccia oggi è cambiata. Non viene tanto dai missili sovietici, quanto dalle agenzie di sicurezza russe, dal loro tentativo di sfruttare e ampliare le nostre divisioni. A volte mi chiedo se le agenzie di intelligence russe saprebbero cosa fare in assenza degli Stati Uniti o della Nato, senza un “nemico”.

Perché dovrebbero voler dividere l’Occidente?

La verità è che gli apparati russi vivono ancora oggi un profondo senso di rivalsa contro le umiliazioni, vere o percepite, subite dal collasso dell’Unione sovietica. Questa mentalità rende difficile interagire con Mosca, perché si finisce intrappolati in un eterno gioco dell’occhio per occhio, dente per dente, senza sapere come uscirne.

Chi ha iniziato?

Chiariamoci, gli Stati Uniti e l’Europa hanno decine, centinaia di buone ragioni per essere infuriati con la Russia. L’invasione della Georgia, poi della Crimea, la guerra in Donbass, l’abbattimento dell’MH17, l’intervento in Siria, poi in Libia, gli avvelenamenti, gli omicidi. Per uscire da questo ciclo di vendette reciproche bisogna individuare dei terreni comuni per negoziare, come il controllo delle armi. Finché però il governo russo e le sue agenzie continueranno a giocare sporco tutto questo non sarà possibile. Talvolta mi domando se loro stessi vogliano davvero un cambio di passo.

Qual è il loro vero obiettivo?

Indebolirci, diffondere il caos, umiliarci, fomentare divisioni all’interno dei singoli Paesi alleati. Per questo dobbiamo lavorare insieme, non solo lavorare “contro”. Anche la Nato deve guardare avanti. Non esistono bacchette magiche, serve un approccio sistematico e unitario per trovare almeno un punto di incontro con la Russia.

In questi mesi si è discusso della possibilità di riaccogliere la Russia nel G7 e in altri forum diplomatici. Anche Trump si è detto d’accordo. È una strada?

La diplomazia dovrebbe essere la normalità, non un premio. Parlare con i russi dovrebbe essere la norma. Sul G7 ho i miei dubbi. Ha escluso la Russia per motivi ben precisi. E oggi, anche su spinta di questa amministrazione statunitense, si sta trasformando in un forum focalizzato sulla Cina cui gli stessi russi non hanno interesse a partecipare. Ci sono altri format.

Ad esempio?

Il Consiglio Nato-Russia è uno fra i tanti. Una forma di dialogo va ripristinata. Non possiamo continuare ad assistere ad assassini, interferenze, violazioni del diritto internazionale. Abbiamo visto cos’è successo con il Bundestag nel 2015 (un attacco hacker, ndr), alle elezioni francesi, forse anche a quelle italiane. Certo, il tempismo non aiuta. Con le elezioni presidenziali in arrivo e una pandemia in corso è tutto più difficile.

Questo martedì è uscito un report del governo inglese sulle interferenze russe. Ritiene plausibile che la Russia voglia interferire nei processi elettorali?

In generale, la Russia vuole far venir meno la fiducia nei sistemi democratici. Ancora una volta, una vendetta. Contro l’Occidente, che ha fatto crollare rovinosamente l’Unione sovietica. Che, Putin ne è convinto, avrebbe fomentato e finanziato le proteste di piazza quando è tornato presidente nel 2012. Il governo russo pensa sempre che ci sia la “mano” dell’Occidente. E soprattutto vuole che se ne parli. Sa che se ne parliamo di continuo, diventa rilevante, rimane al centro. Ha letteralmente il terrore di essere ignorato. È convinto di non avere il posto che merita al tavolo internazionale. Quando Barack Obama ha definito la Russia “una potenza regionale”, o ha detto che “non è più un player importante”, o ancora che “dopo la Guerra Fredda, non bisogna dare importanza alla Russia”, Mosca ha fatto di tutto per dimostrare il contrario.

Hill, è passato un anno dall’addio alla Casa Bianca. In mezzo c’è stata l’audizione al Congresso, il clamore mediatico, decine di minacce anonime. Come ha vissuto questi mesi lontana dalla West Wing?

È stato un anno intenso. L’educazione famigliare e l’esperienza mi hanno aiutato a superare i momenti difficili. Non prendo le minacce o gli insulti sul personale. Oggi viviamo in un ambiente sempre più politicizzato, pieno di persone che credono a teorie complottiste, che odiano. Perfino la salute pubblica, adesso, viene politicizzata. Le donne, anche quelle che lavorano per lo Stato, sono continuamente oggetto di discredito. Non possiamo restare a guardare. Dobbiamo fare qualcosa.

Cosa si prova a stare nello Studio Ovale, nella stanza dei bottoni?

Servire il proprio Paese è una grande cosa. È il messaggio che ho voluto lanciare nella mia testimonianza sull’impeachment, e durante tutta la mia carriera. Il servizio pubblico in qualche modo precede e sublima l’attività politica. L’Italia, una delle più antiche democrazie al mondo, ne ha dato prova durante questa pandemia. Dottori, infermiere, scienziati, governatori hanno tutti svolto un grande servizio pubblico. E il presidente Conte è stato bravo a riunire intorno a sé queste persone.

Ora il ritorno a Brookings. Perché?

Perché voglio fornire un’informazione basata sui fatti, non partigiana, né politica. Non voglio “prendere una parte”. I grandi temi del nostro tempo, dal cambiamento climatico alle fratture sociali, richiedono un approccio olistico, di tutta la società civile. Al momento non c’è una posizione particolare che vorrei ricoprire nel governo federale.

Il suo Paese attraversa un periodo di grande turbolenza. Il virus, le tensioni sociali, quelle politiche. Cosa serve all’America per tornare great again?

Dobbiamo unirci insieme, sentirci parte della stessa comunità. Guardo all’Italia, alla Spagna, a come hanno risposto alla pandemia. Sono stati i primi Paesi europei colpiti, ma hanno ritrovato un senso di comunità, dalle piccole cittadine sperdute alle metropoli. Conte è stato bravo a non politicizzare l’emergenza. Altrove non è successo.

Dove?

Penso al Regno Unito, agli Stati Uniti. Non ci sono riusciti, perché ha avuto la meglio un approccio individualistico, le persone hanno perso il senso di appartenenza. Eppure entrambi i Paesi ne hanno sempre fatto la loro forza. Penso alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale, alla mobilitazione di milioni di persone per un bene superiore. Purtroppo l’imminenza di un’elezione presidenziale non aiuta a calmare le acque.

Da dove si può ripartire?

Indossando una mascherina, uscendo per votare, facendo volontariato. Tutto può aiutare a ritrovare il senso di comunità perso. Lavorando con i nostri alleati, imparandone le best practice. C’è uno straordinario lavoro di squadra dietro le quinte della comunità scientifica per trovare un vaccino. E ci sono pericolosi rigurgiti del movimento no-vax, è un rischio da non sottovalutare. Come con la polio, come con la tubercolosi, se non si rispettano le regole non se ne esce.

 

 

(Foto: Kuhlmann /MSC)


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