Il decreto con cui Erdogan ha disposto la riconversione di Santa Sofia in moschea a partire dal prossimo 24 luglio ha riportato in auge il dibattito sull’adesione della Turchia all’Ue.
La questione divenne di grande attualità nel 2004 con l’avvio dei negoziati fortemente voluti dall’allora neo primo ministro, impegnato in quel momento a dare di sé l’immagine del riformatore che avrebbe condotto il suo Paese nel processo d’integrazione europea. Una strada sbarrata dall’entrata di Bulgaria e Romania tra le stelle gialle della bandiera blu nel 2007 ancor più che dalle perplessità mai sopite di greci e ciprioti. Nonostante molti sponsor favorevoli, le trattative s’impantanarono quando divenne evidente che Erdogan, imboccata la strada del neo-ottomanesimo, in verità non aveva alcuna intenzione di traghettare la Turchia verso gli standard europei dettati dai cosiddetti criteri di Copenhagen. Eppure, nonostante nel frattempo ci sia stata un’accelerazione su questa strada da parte del Sultano, dal 29 novembre 2015 l’Ue ha deciso di rilanciare il processo di adesione turca.
La riapertura di Santa Sofia al culto islamico, seguita all’annullamento del decreto di Ataturk che la trasformò in museo nel 1934, ha indotto a riflettere sull’opportunità di valutare l’ingresso di Ankara nella costruzione politica dell’Europa non solo da un punto di vista geopolitico ed economico, ma anche culturale ed identitario.
La voce più autorevole che si levò in passato per ricondurre la discussione su questo piano fu quella dell’allora cardinale Joseph Ratzinger che, motivando il suo no all’ammissione, ricordò come “la Turchia (avesse) sempre rappresentato nel corso della storia un altro continente, in permanente contrasto con l’Europa”, da intendersi come “continente culturale e non geografico”. Secondo il futuro Benedetto XVI, che ne parlò per la prima volta in un’intervista concessa a Le Figaro nell’agosto del 2004, sarebbe “un errore identificare i due continenti” perché “significherebbe una perdita di ricchezza la scomparsa della cultura in favore dei benefici in campo economico”.
Una posizione che tornò a ribadire un mese più tardi in un discorso pronunciato in un convegno ecclesiale a Velletri e conosciuto grazie al vaticanista Giuseppe Rusconi: in quell’occasione, Ratzinger bollò come “un errore grave” l’ingresso turco nell’Ue, definendolo “antistorico”. Le ragioni dell’opposizione ratzingeriana a quest’eventualità politica si tennero sempre lontane dai toni da crociata – tanto che arrivò ad auspicare per il Paese un ruolo di “ponte culturale” fondamentale per la lotta al fondamentalismo – e si fondarono sull’alterità culturale, non certo su una presunta superiorità cara ad altri ambienti. Una posizione personale condivisa da prelati di spessore come l’allora capo della Cei, il cardinale Camillo Ruini, che invitò la Commissione Ue a “ponderare bene” la decisione perché “la Turchia pur avendo una costituzione laica, è una nazione nei fatti fortemente islamica, molto popolosa e con una dinamica demografica molto positiva”.
La Santa Sede, d’altra parte, si mantenne ufficialmente sulla linea della neutralità relativamente all’apertura dei negoziati nel 2004, pur non mancando di far arrivare ai tavoli dei governi europei due memorandum con le proprie perplessità sull’adesione, motivate dalla situazione ancora incerta in fatto di libertà religiosa. A sedici anni di distanza, la decisione su Santa Sofia sembra rafforzare l’idea che negli anni non solo non ci sia stato un miglioramento, ma piuttosto si sia registrata una radicalizzazione con la svolta neo-ottomana di Erdogan.
Oggi, dunque, vale più che mai la testimonianza lasciata da don Andrea Santoro, missionario cattolico ucciso in odium fidei a Trabzom nel 2006: “La Turchia – scrisse in una lettera dall’Anatolia – deve misurarsi con una effettiva libertà religiosa, dimostrando di essere davvero uno Stato laico, di aver superato le discriminazione e i conflitti religiosi del passato e di non aver paura di quel minuscolo resto di cristiani che qui vivono ininterrottamente da 2000 anni”.