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Ecco perché lo Stato-azionista non è un’assurdità. La retrospettiva di Reina

Il contenzioso aperto dal governo con la società Autostrade, per una sorta di eterogenesi dei fini, sta confermando che l’intervento dello Stato in economia non appartiene più al mondo delle eresie. La logica che forse inconsapevolmente sta seguendo l’esecutivo oggi conferma che la Democrazia Cristiana, durante gli anni dei suoi governi operò scelte di programma socio-economico coerenti con la realtà del Paese: i governi democristiani di centro e di centrosinistra nella prima esperienza repubblicana, seguendo principi di economia sociale di mercato, erano in linea con le tesi economiche, che Keynes suggerì a Roosevelt presidente degli Usa dopo la “grande depressione” del 1929 (New Deal).

Le aziende delle partecipazioni statali, la Cassa per il Mezzogiorno furono di essenziale sostegno all’economia italiana: scarsa di materie prime e priva di risorse per assicurare certezze e benessere agli italiani. Sfasciato quel sistema e avviato il processo sgangherato, irrazionale, selvaggio delle privatizzazioni, l’economia italiana ha iniziato ad arrancare, tanto che il libero mercato ha creato più danni che benefici agli italiani. Non a caso illuminati statisti laici e religiosi ai massimi livelli hanno definito l’attuale tempo: stagione del capitalismo selvaggio. La nota idea: perdite allo Stato, profitti ai privati non sarà vera fino in fondo ma più o meno è così. I casi più eclatanti e scandalosi, di fronte ai quali ci sarebbe da insorgere, si chiamano Ilva di Taranto, Alitalia, Autostrade, per non dire di telecomunicazioni, trasporti, credito. Riecheggiano ancora i vecchi slogan degli anni 1990-94: privatizzare, privatizzare è bello, la concorrenza che ne scaturirà porterà vantaggi ai cittadini in termini di minori costi e di maggiore efficienza.

La realtà dice oggi che i costi sono aumentati e la maggiore efficienza non c’è stata. Una approfondita analisi costi-benefici dimostrerà che poco è cambiato per le famiglie, anzi. Molto invece per chi si è accaparrato a basso costo i beni dello Stato, accumulando profitti spropositati. Resta dimostrato comunque che questa scellerata idea di privatizzare in maniera scriteriata ha comportato più danni che benefici alla comunità nazionale. La memoria riporta agli ultimi anni del fascismo: i cattolici, temendo che forze vetero-liberiste potessero assumere la guida dell’Italia, dopo la fine del potere di Mussolini, ormai ai titoli di coda, intensificarono il loro impegno prepolitico, culturale sia in campo giuridico che in quello socio-economico in modo da essere pronti con un loro programma di governo, eventualmente invitati ad un impegno nell’esecutivo. Un nutrito gruppo di intellettuali cattolici avviò dal 18 al 24 luglio 1943 una settimana di studi presso Camaldoli, luogo ameno vicino ad Arezzo. Esperienza che si rivelò fondamentale per il futuro degli italiani e per i cattolici in politica, non a caso lo studio, “Codice di Camaldoli”, precipitosamente concluso per la imprevista caduta del fascismo, diventò parte integrante del programma, una volta che la DC fu chiamata al governo con il suo principale leader Alcide De Gasperi.

I democristiani di cultura “popolare” non poche volte hanno evocato l’indizione di una “nuova Camaldoli”, per andare con concretezza oltre la diaspora, da cui far scaturire una nuova iniziativa politica, reale speranza da offrire all’Italia per fronteggiare questo tempo di crisi. Una “nuova Camaldoli” significherebbe ribaltare le teorie economiche liberiste che hanno danneggiato non poco il Paese e che il Cardinale Bassetti, presidente della Cei ha definito senza troppi giri di parole: crisi culturale, crisi di civiltà. Riscoprire i punti fermi di una politica ad economia mista vuol dire recuperare nell’era della globalizzazione principi economici che guardano soprattutto alla giustizia sociale, non contemplando idee di profitto secco, figlie di dottrine liberiste.

Come al tempo del post-fascismo, c’era l’ansia di tornare in campo a lavorare per la ricostruzione, liberando l’Italia dalle macerie lasciate dal regime del duce, anche oggi c’è la voglia di rilancio secondo la v­isione democristian-popolare per rendere il Paese più giusto e più sereno. Il disastro vissuto in questo ultimo ventennio ha prodotto sconforto tra i cittadini italiani, delusi e disorientati per gli scarsi risultati prodotti dai governi che si sono succeduti. Proclami e facili enunciazioni, mai scelte di governo rilevanti e concrete per far crescere e migliorare la vita della gente comune. L’interesse si è focalizzato soprattutto su cose secondarie e residuali: televisioni, giustizia e varie. E poi spread, conti, fiscal compact, deficit e altro ancora, aspetti sì importanti, ma per lobby e gruppi di potere. I cittadini comuni invece pensano al peso della busta paga o alle tasse da pagare, per chi vive di libera attività; alla qualità dei servizi; alla speranza offerta da governi, forze politiche e sociali. Certo che indietro non si può tornare del tutto, ma individuare un nuovo punto di equilibrio tra le prescrizioni del Codice di Camaldoli e l’azione del capitalismo selvaggio è possibile. Non sarebbe male per gli attuali governanti approfondire questo aspetto tanto importante del nostro presente, proiettato nel futuro.


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