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La sorpresa di ottobre per Trump? Una mini-guerra con l’Iran

Se la vicenda delle taglie offerte ai Talebani dai servizi segreti russi per uccidere soldati Nato in Afghanistan è una orribile “June surprise” (cit. Daniele Ranieri, il Foglio) per Donald Trump — accusato di esserne a conoscenza, ma di aver glissato per interesse — a ottobre la classica sorpresa che arriva nel rush finale delle presidenziali americane potrebbe essere più positiva per il Commander-in-Chief. Franco Venturini, editorialista del CorSera e firma storica del settore “relazioni internazionali” del giornalismo italiano, ha un’ipotesi suggestiva: uno scontro con l’Iran. Niente di troppo atroce, ma un confronto a bassa intensità dal quale il presidente degli Stati Uniti potrebbe uscire come un leader forte e abile, e successivamente accorto statista in grado di evitare l’escalation. Tra le accuse di incompetenza sul coronavirus, la crisi economica (che tra tre mesi potrebbe già essere tamponata, viste le capacità del mercato americano), la polarizzazione politico-sociale sempre più spinta, un atto di guerra-non-guerra potrebbe essere un espediente utile elettoralmente? Possibile.

L’October Surprise di Venturini avrebbe un innesco perfetto. In quel mese, sulla base dell’accordo sul nucleare (Jcpoa) del 2015, all’Iran dovrebbe essere tolto l’embargo per l’acquisto di armi (non atomiche chiaramente). Nel voto al Consiglio di Sicurezza Onu è possibile che la Russia ponga il veto al prolungamento della misura, ma Washington potrebbe prendere una decisione unilaterale — come già successo con il ritiro dal Jcpoa a maggio 2018. Da lì, potrebbe esserci una reazione iraniana, atto dovuto anche per le dinamiche interne — le forze legate agli ambienti reazionari dell’industria militare (covo socio-politico delle fazioni massimaliste dei Pasdaran) potrebbero spingere per azioni militari nel Golfo perché di questo vivono. Qualcosa di già visto, appunto, con il Jcpoa e l’estate bollente dello scorso anno. Trump allora potrebbe spingere gli Usa a risposte mirate e sicure, in grado di dimostrare forza politica attraverso lo strumento militare, ma tenendo al minimo il coinvolgimento è il piede pronto sul freno. Una “mini-guerra”, secondo Venturini, capace di trasformare Trump nel Commander-in-Chief a ridosso del voto e da lì attirare la maggioranza dei consensi.

Chi scrive ritiene l’ipotesi del maestro del CorSera più che plausibile, e aggiunge un’articolazione dovuta alle complessità interne all’Iran. Le forze politiche pragmatiche in Iran, quelle che guidano l’attuale governo e che cinque anni fa costruirono il Jcpoa, pensano che ormai valga la pena attendere qualche altro mese (figurarsi se non i pochi giorni da ottobre al 3 novembre) e dimostrare ancora resilienza. La speranza è un cambio alla Casa Bianca, chiaramente: l’arrivo di una componente dialogante da usare come sponda esterna per combattere i conservatori più famelici a Teheran — come già successo con il Jcpoa. Ma hanno già dimostrato di non riuscire a frenare i falchi. I personaggi della linea dura infatti considerano la presenza di un nemico agguerrito a Washington come linfa vitale per sfamare la costante narrativa data in pasto ad attuali e potenziali proseliti. Sono questi che potrebbero far scattare il detonatore dell’ipotesi avanzata da Venturini, che dunque sarebbe anche un segnale sulla tendenza nella Repubblica islamica.

 

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