La Tunisia vive l’ennesima fase di instabilità politica ed istituzionale, condizione che si riflette nella stabilità interna di una Paese dove gli equilibri sono freschi (post-Primavera Araba) e delicatissimi, con un potenziale riverbero sul contesto regionale. Non soltanto per la continuità geografica, infatti, il dossier tunisino è geopoliticamente collegato a quello libico. E questo significa che la destabilizzazione e le interferenze esterne potrebbero avere maggiore efficacia alla luce di una saldatura tra le due crisi.
Entrambe affacciate sul Mediterraneo, entrambe oggetto di un interesse nazionale italiano (l’altra sponda) e degli alleati (leggere Nato, e Usa). La Tunisia è in effetti un istmo de facto proiettato a pochi chilometri dalla Sicilia, luogo di sensibilità strategiche; dalle basi al Muos fino ai cavi sottomarini.
“La Tunisia è molto in difficoltà a prendere posizioni sulle questioni regionali, e questo stato attuale è dovuto all’instabilità interna”, spiega a Formiche.net Alessia Melcangi, docente di Storia contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente alla Sapienza di Roma e non-resident fellow dell’Atlantic Council. Per dare un’immagine di questa instabilità: il duello interno tra islamici e laici ha portato due settimane fa alle dimissioni del premier Elyes Fakhfakh, che ha lasciato il suo nuovo governo varato a febbraio.
“Per capire cosa sta succedendo bisogna fare un passo indietro – spiega Melcangi – e ricordare che Fakhfakh era stato nominato come ultima chance, perché Tunisi era senza esecutivo e già c’erano stati altri tentativi che non erano andati a buon fine. In particolare, va ricordato che il partito islamista Ennahdha lo ha appoggiato senza troppa convinzione: non aveva altre possibilità d’altronde, visto che c’è una parte di cittadini che lo ritiene responsabile della non ripartenza economica e di produrre instabilità istituzionale”.
La coalizione di Fakhfakh è sempre stata debole, in un contesto molto delicato in cui Tunisi si trova a combattere una disoccupazione costantemente attorno al 20 per cento e l’incertezza della ripartenza post-Covid – trauma generale, nonostante la Tunisia sia considerata uno dei paesi che meglio ha gestito l’emergenza.
“A proposito di saldatura tra dossier libico e tunisino, possiamo dire che, da quando Ennahdha ha appoggiato la maggioranza, in Libia la partita è cambiata. Il leader del partito, il presidente del parlamento Rachid Ghannouchi, ha intensificato le sue esposizioni verso Turchia e Qatar e ha mostrato la volontà di portare avanti dinamiche di politica estera che non gli competono, perché sono parte del mandato del presidente Kais Saied“.
I contatti col fronte islamista sono ricostruibili in contatti con Ankara e con Doha seguendo un allineamento che vede i due Paesi parte di un fronte allineato all’Islam politico ai principi della Fratellanza musulmana, interno al sunnismo e in scontro aperto con l’altro che invoca il mantenimento dello status quo, rappresentato dai paesi del Golfo e dall’Egitto. Questa divisione è esplicita in Libia, dove trova sfogo guerresco con la Tripolitania e il governo onusiano Gna difesi dalla Turchia e dal Qatar, contro le ambizioni del capo miliziano della Cirenaica per la presa di Tripoli sponsorizzate da Emirati Arabi ed Egitto.
“Queste dinamiche sfiorano raramente il dibattito parlamentare tunisino, che è molto più incentrato sulle questioni che riguardano l’economia. Tuttavia sono diventate parte del confronto anche perché sia il premier che il presidente sono figure che si sono sempre tenute a distanza da certe spaccature. Ricordiamo che l’elezione di Saied, uno stimato professore ritenuto terzo rispetto alle dinamiche politiche interne ed esterne al Paese, nasce anche dalla necessità espressa dalla popolazione di rompere con la vecchia logica politica corrotta e disfunzionale”, spiega Melcangi.
Un passaggio recente ha fatto scattare tutto: qualche settimana fa, diversi parlamentari di opposizione hanno presentato una mozione per chiedere di evitare qualsiasi genere di ingerenza esterna, “una mossa che è sembrata una netta critica contro il presidente del Parlamento”, spiega Melcangi, organizzata dai post-benalisti del Partito dei destouriani liberi, che Ennahdha attacca perché considera controllato e spinto all’azione politica dal Cairo e da Abu Dhabi.
Da lì in poi una serie di eventi ha portato alla presentazione di una mozione di sfiducia per Fakhfakh basata su presunti conflitti di interessi che alcuni esponenti di Ennahdha sarebbero stati disposti a votare. A quel punto il premier, preso atto che con la sfiducia il partito islamico (il più numeroso in Parlamento) avrebbe automaticamente avuto il compito di formare un nuovo governo, ha dato le dimissioni. Un gioco di anticipo per passare la palla in mano a Saied, evidentemente considerato anche da Fakhfakh la figura in grado di ritrovare una quadra per abbassare le esposizioni tunisine a determinate, rischiose dinamiche esterne.
“Quello che è certo è che valutati tutti i fattori la Tunisia quella quadra dovrà trovarla, e nel farlo non potrà sottovalutare le attenzioni necessarie alla Libia. Innanzitutto perché c’è una questione fondamentale, quella sul confine: Tunisi si sta chiedendo a chi affidare il controllo di quel tratto permeabile che produce e ha già prodotto devastanti penetrazioni jihadiste (ricordarsi per esempio la vicenda di Ben Gardane, ma anche i vari attentati baghdadisti, ndr)”.
Tunisi, grande escluso del processo libico da tavoli importanti come la Conferenza di Berlino, recentemente si è dichiarato a favore del Gna. Una posizione inevitabile perché è il governo che si muove sotto egida Onu, ma ha affermato con forza come priorità la non ingerenza in Libia di attori esterni. Stando all’analisi di Melcangi, questa posizione ha anche un riflesso interno.