L’impero americano colpisce ancora. E lo fa a partire dai suoi punti di forza. Le nuove sanzioni in discussione per colpire Huawei potrebbe ben presto farsi sentire, e non solo per le ricadute commerciali. Mentre si rafforza il fronte anti-cinese nella battaglia globale per il 5G — dopo l’annuncio del Regno Unito di bandire (a partire dal 2027) il colosso delle telecomunicazioni cinesi, la convergenza tra Londra e il Giappone e il possibile bando di Huawei e Zte dal mercato italiano secondo le ultime indiscrezioni rivelate da Formiche.net – gli Stati Uniti stanno approntando una strategia industriale per svincolare la supremazia tecnologica americana dalle supply chain in Cina.
È infatti notizia di ieri che la Camera dei Rappresentanti al Congresso ha approvato un emendamento al National Defense Authorization Act (NDAA), quella serie di provvedimenti che specificano il budget annuale da stanziare al Pentagono, con il quale si prevede di aumentare i fondi federali per promuovere l’industria statunitense dei microchip e gli investimenti in ricerca e sviluppo. A presentare la proposta un gruppo di deputati bipartisan, guidati da Doris Matsui (democratico della California) e Michael McCaul (repubblicano del Texas), successivamente passata anche al Senato.
A confermare il successo dell’iniziativa un comunicato stampa della Semiconductor Industry Association, la lobby americana dei microchip, in un contesto legislativo estremamente fertile. Infatti, circa un mese fa al Congresso era stata depositata la proposta del Chips for America Act, un piano da 22 miliardi di dollari volto ad accogliere le pressioni della Sia per rafforzare la competitività del tessuto manifatturiero americano. Non solo. Anche l’American Foundries Act 2020, proposto dal senatore di New York Chuck Schumer lo scorso mese, si presterebbe a creare le condizioni per incentivare gli investimenti sul suolo americano. A oggi, l’industria dei semiconduttori americana vanta il 45% di share nel mercato globale, seguita a singhiozzo dai competitor asiatici ed europei. Tuttavia, come rilevato nel suo ultimo rapporto, la Sia ha evidenziato come un progressivo calo degli investimenti in R&D nel settore avesse parzialmente eroso il vantaggio americano. Ecco perché le iniziative al Congresso rappresentano un primo step per rialzare l’asticella della supremazia tecnologica degli Stati Uniti nel settore dei microchip. “Il Congresso possiede l’opportunità strategica”, si legge nel comunicato, “di rafforzare la manifattura e ricerca americana nei semiconduttori, due vettori cruciali per la forza economica, la sicurezza nazionale e la resilienza americana nelle catene del valore”.
Lo sguardo infatti è fisso sulla sfida tecnologica lanciata da Pechino, pronto ad investire più di 100 miliardi di dollari per rilanciare la sua industria dei microchip. “Dal momento che la leadership globale nei semiconduttori è progressivamente contestata”, ha commentato Stephen Ezell, vice-presidente dell’Information Technology Innovation Foundation (Itif), sulle pagine di The Hill, “gli Stati Uniti necessitano di una più aggressiva collaborazione pubblico-privato per assicurarsi la leadership in una tecnologia che abbiamo in origine sviluppato”. Un primato che alla luce del peso che l’economia digitale giocherà negli equilibri globali – attualmente conta un quarto del prodotto interno lordo mondiale – e del considerevole impatto dell’export dei microchip per l’economia americana (44 miliardi e quarto settore per rilevanza), è naturale ritenere, come ricorda Ezell, che “la leadership di un paese nell’economia digitale globale inizia con la leadership nei semiconduttori”.
È proprio il combinato disposto tra un auspicato e maggior investimento federale e una minor dipendenza dalle catene del valore globale (molte delle componenti, seppur di design americano, sono prodotte all’estero, specialmente in Asia) a poter diventare un vantaggio strategico degli Stati Uniti. Ecco perché è a partire dai microchip che gli Stati Uniti potrebbero giocare in un campionato a parte, con buona pace delle ambizioni della Cina e, per riflesso, di Huawei. E di conseguenza di come il decoupling potrebbe diventare una doppia vittoria. Infatti, a differenza di quanto generalmente sostenuto dagli analisti che seguono la guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina, la capacità di Washington di poter sfruttare le sue carte vincenti “va ben oltre le aspettative”, riporta il Washington Post. “In un mondo disaccoppiato, faremmo molto meglio di quanto possano fare i cinesi”, ha ricordato un membro dell’amministrazione Trump.
A confermarlo un rapporto desecretato del governo britannico rilasciato il 14 luglio scorso dal National Cyber Security Centre. Gli esperti ritengono infatti che ampliare le adesioni dei paesi alla “Entity List” su Huawei possa consentire agli Stati Uniti di prevenire non soltanto la vendita di tecnologie prodotte dalle aziende americane, ma anche e soprattutto il trasferimento di sistemi tecnologici prodotti da compagnie straniere che dipendano dal software e dalla tecnologia statunitense. E chiaramente questo riconduce alla notevole dipendenza di Huawei dai semiconduttori di fabbricazione americana. “La nostra previsione”, si legge nel rapporto, “è che la supply chain di Huawei possa venire colpita nei prossimi 3-12 mesi”. Se Huawei decidessi di correre ai ripari, cercando di assicurarsi una supply chain di hardware e software indipendente, si tratterebbe di un processo tortuoso e non privo di ostacoli, dal momento che “l’equipaggiamento dovrà essere costruito con strumenti sconosciuti e mai prima testati, creati in tempistiche estreme. E’ altamente probabile che la questione della qualità [dei prodotti] aumenti significativamente”.
In questo contesto di crescente bipolarizzazione tecnologica, al netto delle possibili ritorsioni di Pechino su Nokia ed Eriksson come raccontato da Formiche.net, è possibile che si creino degli spazi di manovra dei giganti europei soprattutto per colmare la lacuna nell’offerta delle infrastrutture 5G. Come nota Rana Foroohar sulle pagine del Financial Times, è necessario raggiungere al più presto un “detente tecnologico transatlantico” sui temi della privacy e della digital tax per non inficiare la partnership tra Stati Uniti e Unione europea, soprattutto alla luce della comune condivisione della minaccia cinese. “Trovare un punto comune su queste questioni sarà difficile. Ma assicurerebbe che gli Usa e l’Europa diventino contesti migliori per competere contro la Cina in un mondo sempre più frammentato”.