Mentre alcune nazioni si occupano di rimpatri e di nuove norme contestate (Francia) oppure di arrivi ed espulsioni (Turchia), in Siria e Iraq i foreign fighter prigionieri e i loro familiari restano in un limbo senza soluzioni all’orizzonte, con tutto ciò che comporta sulla sicurezza e sul futuro dei bambini. Nei campi siriani, per esempio, ci sono alcune centinaia di piccoli francesi, dieci dei quali sono stati rimpatriati dal governo di Parigi nelle scorse settimane: in alcuni casi sono orfani, in altri con il consenso delle madri. Il ministro della Giustizia olandese è sulla stessa linea, sostenendo che riportare a casa i propri concittadini per processarli sia più importante dei potenziali rischi per la sicurezza nazionale.
Alcune nazioni sembrano più sensibili al problema come Kosovo, Turchia, Russia, Kazakistan e Uzbekistan che hanno rimpatriato parecchi concittadini, in gran parte donne e bambini, mentre sono ancora moltissimi i cittadini europei che vivono in pessime condizioni nei campi nel Nordest della Siria.
Secondo le Nazioni Unite, l’anno scorso sono morti per polmonite, disidratazione e malnutrizione almeno 390 bambini di entrambi i sessi, anche di 5 anni, mentre andavano al campo di al-Hol in Siria o subito dopo esservi arrivati. Save the children ne contò 50 nei primi due mesi del 2019. Gran parte dei Paesi occidentali se ne lava le mani continuando a sostenere che chi ha combattuto nelle file jihadiste debba essere processato nei luoghi dove ha commesso i crimini, come Siria e Iraq, insensibili alle richieste curde di rimpatriarli: la paura è quella di facilitare nuovi attentati.
Ricerche citate dal Soufan Center, però, sostengono che chi ha vissuto l’esperienza dell’Isis sia disilluso, che solo in alcuni casi vuole perseguire ancora l’idea del Califfato e quindi che possano essere più pericolosi gli estremisti che non sono mai andati a combattere di quelli che tornano o che potrebbero tornare a casa. Analisi che, per ora, non convincono l’Occidente che si tiene a distanza dal problema mentre ci sono bambini che stanno passando più anni della loro vita nei campi siriani di quanti non ne abbiano vissuti nella nazione di origine, che diventa sempre più sconosciuta.
La Turchia sta affrontando una sfida difficile. Sono migliaia i foreign fighters rientrati e alcuni furono coinvolti negli attentati compiuti in territorio turco tra il 2014 e il 2017 nei quali morirono circa 300 persone. Alcuni sono stati processati e incarcerati, altri sono rientrati nell’ambiente nel quale furono reclutati dall’Isis, altri ancora sono stati respinti da amici e parenti e ora si aggirano nelle principali città turche.
Il governo sta studiando politiche di deradicalizzazione e riabilitazione: in un’analisi del Crisis group si sottolinea che i combattenti di ritorno rischiano tre o quattro anni di prigione durante i quali mantengono contatti con estremisti e già a centinaia stanno per essere rilasciati. Solo il carcere non serve, è controproducente. L’attenzione turca è costante: negli ultimi giorni, per esempio, sono stati arrestati 12 jihadisti iracheni nella zona del Mar Nero e sono stati espulsi 9 foreign fighter belgi, per un totale di 388 rimpatriati dall’11 novembre scorso. Ben 113 erano cittadini europei, statunitensi e australiani.
Oltre a qualche rimpatrio deciso dal governo, il Parlamento francese nelle scorse settimane ha approvato un disegno di legge che prevede alcune misure per i condannati per terrorismo che abbiano scontato la pena: l’autorità giudiziaria potrà imporre per cinque o dieci anni l’obbligo di rispondere alle convocazioni del giudice, un obbligo di residenza, il divieto di recarsi in certi luoghi e il braccialetto elettronico.
Il provvedimento potrebbe riguardare i circa 150 detenuti che sconteranno la pena entro i prossimi tre anni su un totale di 514 detenuti per fatti di terrorismo e altri 760 detenuti comuni, ma sospettati di radicalizzazione. La norma è stata approvata dai deputati di En Marche, dai repubblicani e dall’Unione dei democratici, ma non sono mancate le proteste da parte del Consiglio degli ordini forensi, che rappresenta 70mila avvocati, per il quale “la pena dopo la pena” mette in discussione lo Stato di diritto ed è contraria alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Critiche analoghe sono arrivate dai partiti di sinistra.