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Apocalisse a Beirut. Così il Libano vive il suo 11 settembre

Quando ancora si parlava di una decina di morti uno dei più autorevoli commentatori de L’Orient le Jour, giornale francofono di Beirut, Michel Hajj Georgiu, scriveva: “Temo un bilancio tragico. Spero di sbagliarmi. Dolore si aggiunge a dolore. Signore, abbi pietà”.

Apocalisse, città devastata. Queste le parole prescelte da molti per rispondere a una domanda: che cosa è accaduto ieri a Beirut? L’undici settembre di Beirut, arrivato il 4 agosto del 2020, potrà essere accaduto accidentalmente? Nulla si può escludere. Questa ipotesi è un po’ consolatrice, per chiunque sia arrivato a rendersi conto di quanto è accaduto umanamente e fisicamente, ieri, a milioni di persone a Beirut. Ma comunque siano andate le cose dobbiamo andare a quell’incredibile undici settembre 2001. Anche allora ci volle tempo per riuscire a capire che quelle immagini erano vere. Ieri, vedendo quella seconda spaventosa esplosione che ha devastato tutta la città abbiamo avuto ancora bisogno di tempo per capire, o, per meglio dire, per renderci conto. L’undici settembre di Beirut, città araba, città moderna, città mediterranea, città martire di una devastante guerra civile, è diventato chiaro col tempo, non sono bastate le immagini per renderci conto che tutta una città era sanguinante, straziata da qualcosa di mostruoso, di inimmaginabile. Le immagini non riuscivano a farci capire che a decine di chilometri di distanza dal luogo dell’esplosione i palazzi erano stati lesionati, i vetri erano esplosi, tanti bambini,  tante bambine, tanti anziani, tanti beirutini erano rimasti feriti, e comunque traumatizzati. Il boato ha fatto tremare anche Cipro. Tutto questo, l’undici settembre di Beirut, sarà accaduto accidentalmente? Può essere, ma può anche non essere.

Il Tribunale Internazionale per il Libano dovrebbe pronunciare nelle prossime ore la sua sentenza sull’assassinio di Rafiq Hariri, l’ex premier libanese ucciso sul lungomare di Beirut da un’esplosione che ha fatto saltare in aria lui e le 21 persone che viaggiavano con lui il 14 febbraio del 2005. Sono imputati quattro miliziani di Hezbollah rimasti latitanti dal giorno del rinvio a giudizio.  L’undici settembre di Beirut è accaduto alla vigilia di questo verdetto, atteso dunque da quindici anni. Può essere anche questa una coincidenza? L’undici settembre di Beirut arriva incredibile, sconvolgente, alla vigilia del processo che deve dire se sono colpevoli o innocenti i miliziani del Partito di Dio, il partito khomeinista che oggi comanda a Beirut insieme ai maroniti del presidente Aoun. Nulla giustifica il collegamento tra i due eventi, nessuna dichiarazione, nessun fatto provato. Solo il calendario lo indica.

Impossibile dire se l’undici settembre di Beirut sia accaduto accidentalmente, e certamente anche negli accidenti c’è una responsabilità, come dimostra che all’inizio si sia  parlato di esplosione di un deposito o di un cargo di fuochi d’artificio. Poi è emersa una prima ricostruzione ufficiale che marginalizza il dato dei fuochi d’artificio: infatti si dice che prima sia esplosa un’imbarcazione dal carico esplosivo, poi le fiamme hanno causato un secondo incendio, perché hanno coinvolto 2700 tonnellate di nitrato d’ammonio, che sarebbero state nel porto di Beirut da sei anni. Dunque da sei anni sarebbero state lasciate in un hangar beirutino, nel cuore commerciale di Beirut, nel cuore del suo porto, 2700 tonnellate di una sostanza indiscutibilmente utilizzabile per produrre esplosivi (o anche fertilizzanti). Ci sarebbero anche i documenti contabili a comprovarlo.

La fumea stordente e maleodorante che si è diffusa come una nube tossica su Beirut ha fatto temere anche di peggio. E colpisce che sin qui ci siano smentite di coinvolgimenti o responsabilità da parte dei soggetti armati, ma nessuna accusa, neanche da essi stessi. Per la prima volta, sin qui, nessuno accusa nessuno dell’accaduto, anche se le voci ovviamente ci sono. L’accaduto è di tale enormità che neanche i belligeranti, almeno sin qui, accusano il nemico di aver perpetrato il crimine. Un altro fatto senza precedenti. Così la questione rimane sempre quella da cui siamo partiti: tutto è accaduto accidentalmente?

Bisogna stare attenti a non cadere in nostri schemi mentali: anche con il Covid-19 l’incredulità ha portato molti a cercare una risposta per loro logica, arrivando a dare per certo che fosse un complotto: qualcuno lo ha immaginato un complotto cinese, altri un complotto americano. È il bisogno di qualcosa che ci appaia logico a spingerci a ragionare così. E la tesi dell’incidente difficilmente può bastare, né con il Covid-19 né ora davanti a quanto accaduto a Beirut. Ma che quanto accaduto nella capitale libanese sia stato accidentale, accidentalmente accaduto in un giorno fatidico come la vigilia della sentenza internazionale sul delitto Hariri, rimane veramente difficile da accettare. Ma rimane anche difficile immaginare che chiunque possa aver davvero progettato tutto questo. Allora è lecito chiedersi: può essere stato un attentato sfuggito di mano a chi lo ha pensato e progettato contro la prima nave ma ignorava la presenza di quelle 2700 tonnellate di nitrato di ammonio che stavano lì, davvero dimenticate, da tanti anni? Possibile?

La prima esplosione è più immaginabile, più “umana”. Poi da quel possibile obiettivo di un attentato “compatibile” l’incendio arriva a qualcosa di enorme, quindi a quelle 2700 tonnellate. È successo questo? È andata così? L’ipotesi accidentale potrebbe essere questa, anche se c’è quella più “radicale”: la prima nave aveva a bordo armi, non fuochi d’artificio; è successo qualcosa e le fiamme hanno raggiunto il deposito.

Prima di tentare di trovare una risposta bisogna aggiungere dei crudi dati di cronaca. Beirut è priva di forze, i suoi ospedali non bastano a curare tutti i feriti. La popolazione è traumatizzata dai prodotti di un intero evento bellico svoltosi però in pochi minuti. E il Paese è in ginocchio. Il collasso economico, il default dal quale non riesce a riprendersi ha messo sul lastrico un numero enorme di famiglie, di persone. Con questo caldo fortissimo la gente non ha i soldi per fare la spesa, il Paese non ha energia elettrica, l’economia è al collasso, il Covid-19 continua a falciare vite. Ieri, poco prima dell’esplosione, un ministero è stato occupato da manifestanti. In questo contesto il governo ispirato da Hezbollah non riesce a trovare il bandolo di un negoziato con il Fondo Monetario Internazionale, la lira libanese precipita da 1500 come controvalore del dollaro a più di 10000. È in questo contesto che arriva la vigilia del pronunciamento del tribunale internazionale, dopo quindici anni di attesa e di depistaggi e sabotaggi, sul delitto Hariri. Siamo così all’undici settembre di Beirut, forse accidentale, preceduto da azioni miliziane di Hezbollah lungo il confine con Israele.

Eccoci allora alla tesi che merita di essere esposta e considerata. Dopo aver toccato il suo acme di crescita ed essere diventata la perla araba del Mediterraneo orientale, il rifugio del libero pensiero arabo e non solo, la città dell’impresa nell’epoca della nazionalizzazione di ogni attività da parte dei regimi nazionalisti del Medio Oriente arabo opposti a quelli renditieri, Beirut ha subito attacchi devastanti e impensabili dal 1975. Quindici anni di guerra civile contro la sua mappa urbana perché promiscua, in parte europea e in parte araba, l’hanno ridotta in cenere. Quindici anni di ferocia inaudita. Poi un lento, problematico ricostruirsi l’ha condotta alla carneficina del 14 febbraio 2005. Un’esplosione violentissima ha fatto saltare in aria l’uomo che aveva ricostruito Beirut. Quell’assassinio ha dato il via a una scia di sangue incredibile e rimossa in gran parte del mondo. Soprattutto gli intellettuali e i politici cristiani che sostenevano lo sforzo indipendentista e libanese di Hariri ne sono stati vittime. Uccisi a pistolettate per strada, o con bombe telecomandate. Ora, ancora una volta dopo quindici anni, quindici anni di guerra civile, quindici anni di attesa del verdetto sul delitto Hariri, alla vigilia della sentenza sul suo assassinio, arriva la devastazione che potrebbe cancellare tutto, di nuovo.

L’undici settembre libanese, comunque siano andate le cose, potrebbe mettere fuori gioco questa città araba, mediterranea, moderna, questa città di mare votata alla cultura del mare cioè dell’incontro, del vivere insieme. Rafiq Hariri non c’è più a Beirut. Chi avrà la capacità di riaccendere il motore? Non lo sappiamo, ma l’incrocio di emergenze che si unisce contro Beirut fa temere. Il Paese è economicamente sul lastrico, il Covid-19 è un’emergenza nell’emergenza, ora arriva l’undici settembre dell’esplosione più atroce della storia del Mediterraneo. Beirut per ripartire ha bisogno che l’Europa finalmente capisca che sfida totale si gioca sulla sua marina. Quella sfida riguarda il nostro futuro. Se si chiudesse la finestra di Beirut si chiuderebbe la possibilità del Mediterraneo di tornare a essere un mare che unisce, come lo aveva fatto la geografia e Alessandro Magno.     

(Foto: Alessandro Balduzzi)



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