Secondo Massimiliano Panarari, sociologo e saggista, c’è un doppio vizio di sostanza alla base dell’alleanza giallorossa che, come ammesso dal suo più autorevole regista Goffredo Bettini (sul Foglio di oggi) è naufragata. Il Movimento, che il Pd pedagogicamente auspicava mutasse forma, ha invece instillato il populismo “nel codice genetico del progressisimo”, giungendo all’evidenza di una sconfitta. Da cui però si potrebbe ripartire per una nuova fase.
Che significa se il regista dell’alleanza giallo-rossa, Goffredo Bettini, arriva a certificarne il fallimento?
Dobbiamo a questo punto registrare con curiosità il fatto che il Mazzarino dell’alleanza giallo-rossa ne dichiari la fine. Confesso il mio stupore, ma è la fonte più autorevole dell’elaborazione. In questa visione credo ci sia un problema: l’improvvisa accettazione di una serie di cambiamenti in corso, in un contesto in cui le bocce sono in movimento. In un momento di grandi fragilità come questo, tra pandemia, crisi economica e congiuntura internazionale, qualunque elemento può innescare una serie di conseguenze imprevedibili. Per cui occorre un passo indietro.
A quando?
Evidentemente c’era un vizio di sostanza, oltre che di forma, nel teorizzare l’alleanza giallorossa. Lo dimostra il fatto che la realtà ci riconsegna una non ricezione del patto da parte del Movimento. Lo conferma la negazione da parte di Bettini dei presupposti di ciò che aveva teorizzato, con la proposta di una terza gamba.
Era prevedibile sin dall’inizio?
Il patto partiva dal presupposto che il populismo era un dato di fatto inaggirabile così come accaduto tra il 2010 e il 2020. Effettivamente è un elemento ormai strutturale del nostro paesaggio politico, ma pensare che il populismo debba entrare nel codice genetico del progressisimo è stato un ossimoro, è negazione della sua tradizione politica. A ciò si affianca una certa idea pedagogica, cara alla sinistra italiana, di riuscire a riplasmare il proprio interlocutore: ovvero la contaminazione tra Pd e M5S che avrebbe presupposto una trasformazione dei grillini in una direzione indicata in modo ingegneristico dai sostenitori piddini di tale alleanza. Questi elementi formano il vizio di sostanza alla base del progetto, di cui vediamo oggi nella pratica gli errori di postulati e assiomi.
Si può anche certificare la sconfitta, come aggiunge Bettini, e ripartire da zero dunque?
Accettare la sconfitta come terreno di nuova partenza per la costruzione di altre proposte e progetti politici di largo respiro, se naturalmente la volontà dell’elettorato andrà in quella direzione. È chiaro a tutti che l’alleanza ha avuto una dimensione tattica e governista, come elemento ontologico. In tempi in cui occorre una grande visione, come magistralmente ricordato da Mario Draghi, tale sforzo non può tradursi in semplici alleanze tattiche. Tale vizio del tatticismo lo ritroviamo anche nell’idea molto astratta della terza gamba.
La terza gamba liberal-moderata è una terra di mezzo oppure il naturale punto di equilibrio futuro?
È quell’idea, giusta e positiva, che caratterizza una parte del gruppo dirigente piddino: ovvero che si vince per sommatoria, per quell’aritmetica elettorale imprescindibile, mettendo assieme pezzi al fine di arrivare alla maggioranza. Questo fu alla base dell’Ulivo, ma all’insegna di un progetto unitario e comune. Cito uno stratega rilevante come Arturo Parisi, che metteva in conto il concetto di sconfitta ma utilizzandola per costruire un progetto che si definiva in relazione ai cambiamenti. Quel progetto era davvero unitario sin dal suo inizio, non una mera somma di numeri.
E davvero Renzi può occupare quell’area?
Renzi ha rappresentato la terza via all’italiana, con il contesto internazionale che all’epoca giocò un ruolo. Sappiamo benissimo quanto ciò che accade nella politica Usa sia importante anche a costruire un team globale di opinione. Oggi naturalmente tutto ciò non c’è e pesa. Ma nel perdere di vista il tema della giustizia sociale ha indirettamente favorito il clima di opinione populista che si è cementato attorno al M5S. Renzi è indiscutibilmente un talento politico, un comunicatore di grande efficacia: rispetto all’obiettivo del centro probabilmente servono una serie di passi pregressi.
Quali?
Il grande cantiere del centro si costruisce tramite la realizzazione di un’area di opinione comune tra cittadini ed elettori refrattari al populismo e alle sue parole d’ordine, allergici agli estremismi. Ma visto che il nodo è come amalgamarli, occorre uno sforzo preliminare quindi le soluzioni sono due. O una fusione tra sigle che guardano al centro, naturalmente non facile, oppure una grande proposta in grado di fornire un disegno per un pezzo di elettorato che corrisponde almeno al 10% ma che potrebbe spingersi fino al 20%.
Le regionali e il referendum saranno il vero congresso del Pd?
La situazione è totalmente fluida perché azzerata dall’emergenza sanitaria, dunque ci troviamo in un contesto in cui basta pochissimo per innescare un movimento imprevedibile e quindi una trasformazione profonda. Il referendum scompagina anche quelle che sono le formule politiche pre Covid. Interessante la trasversalità dei due schieramenti: la nota dominante è che i riformisti sono per il no, come Cuperlo, che ha mostrato capacità di innovazione; mentre paradossalmente per il sì ci sono schierati esponenti dell’establishment su un quesito contro lo stesso sistema. La vittoria del sì sarebbe un dividendo politico formidabile per il M5S: ciò ha costretto i partiti di sistema a inseguire il Movimento in un gioco in cui però si è compiuta la trasformazione dei grillini in partito di establishment.
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