Piero Fassino, già segretario dei Ds e sindaco di Torino, da qualche settimana presidente della Commissione Esteri della Camera, altelefono con Formiche.net affronta i temi urgenti della politica estera italiana, europea e internazionale: il Libano, la Bielorussia e Hong Kong.
Presidente, dopo l’iniziativa del presidente francese Emmanuel Macron l’Italia a che punto è in Libano?
Mi pare che anche l’impegno italiano per il Libano, un’area strategica per il nostro Paese, sia pieno. Il premier Giuseppe Conte ha partecipato in prima persona alla conferenza dei donatori indetta da Macron. Abbiamo provveduto a inviare, nelle ore immediatamente successive alle esplosioni, aiuti di emergenza. Inoltre, svolgiamo un ruolo essenziale sul confine Israele-libanese con il contingente Unifil, in gran parte composto da soldati italiani e guidata dall’Italia (con il generale Stefano Del Col, ndr).
Che ruolo può giocare l’Italia?
Abbiamo l’assoluta consapevolezza che dobbiamo essere presenti e accompagnare, insieme agli altri Paesi europei, la ricostruzione e favorire la transizione politica, che ci auguriamo si apra presto.
L’iniziativa francese in Libano sembra voler coinvolgere tutti, anche Hezbollah.
La dialettica interna libanese deve essere decisa dalle forze politiche libanesi: sta a loro scegliere come ridefinire lo sviluppo politico ed economico del Paese. Noi, la comunità internazionale, dobbiamo sostenere in ogni modo il dialogo tra tutte le forze locali per superare la crisi e accompagnare l’avvio di una fase nuova richiesta ormai da un crescente movimento di società civile. Da molti anni è in corso un logoramento e una crisi profonda dell’oligarchia politica che ha guidato il Libano fin dalla sua nascita.
Parigi chiede un’indagine internazionale, Beirut dice di poter fare da sé. C’è una soluzione?
Noi sosteniamo la necessità di un’indagine che accerti la verità e le responsabilità. E una commissione internazionale sarebbe certamente garante di questo. Ma se le forze politiche libanesi ritengono di poter assolvere a questo compito in modo autonomo devono però fornire precise garanzie di un’indagine effettivamente trasparente e condotta in modo imparziale.
Cambiano scenario: parliamo della Bielorussia. L’Unione europea è preoccupata, Minsk rappresenta però anche l’ultimo bastione contro la Russia di Vladimir Putin. Siamo tra due fuochi?
Penso che la situazione bielorussa sia molto grave. Da anni il Paese è retto da un’autocrazia autoritaria, che peraltro ha un’alleanza strategica con la Russia. Sulle elezioni appena svolte gravano l’ombra di manipolazioni a cui si aggiungono gli episodi di dura repressione del governo nei confronti delle forze di opposizione. E la leader dell’opposizione (Svetlana Tikhanovskaya, ndr) ha dovuto riparare in Lituania per mettere al sicuro i suoi figli. Anche in questo caso, l’Italia e gli altri Paesi dell’Unione europea devono lavorare affinché si torni quanto prima al rispetto delle regole democratiche e sulla base di questo si avvii una fase politica nuova con una transizione verso una democrazia vera e piena.
Altro fronte caldo per i diritti umani è la Polonia.
È davvero molto grave l’annuncio del governo polacco di denunciare la Convenzione di Istanbul — adottata dal Consiglio d’Europa e fatta propria dall’Unione europea — che rappresenta un punto avanzato in materia di diritti civili, parità di genere e tutela dell’orientamento sessuale. E ha ispirato l’evoluzione della legislazione di molti Paesi, innalzando il livello di tutela dei diritti individuali di ogni persona. Così come non possiamo ignorare la riduzione della libertà di stampa in Ungheria. Si va pericolosamente estendendo il modello delle “democrazie illiberali”, regimi che piegano le regole democratiche alla dittatura della maggioranza e all’autocrazia. Chi crede nei valori liberali e democratici non può rimanere inerte.
Ultimo scenario: Hong Kong. Ieri abbiamo assistito al raid della polizia contro l’Apple Daily, giornale pro democrazia, e il suo editore Jimmy Lai oltre che all’arresto dell’attivista Agnes Chow.
Quello che ormai da tempo sta accadendo a Hong Kong è molto grave: c’è una violazione evidente di quell’accordo siglato tra la Repubblica popolare cinese e il Regno Unito, depositato alle Nazioni Unite, che riconosce l’autonomia dell’ex colonia britannica e le sue regole democratiche. Tutto questo negli ultimi tempi è stato fortemente compresso e spesso apertamente violato dalle autorità legate a Pechino. Anche quanto accaduto ieri — il raid contro Apple Day — va contro una delle regole fondamentali di tutto il mondo democratico, cioè il rispetto della libertà di opinione e di informazione, anche quando esprimono tesi critiche o non gradite.
Colpisce che tra gli undici statunitensi sanzionati da Pechino ieri ci siano, oltre a sei membri del Congresso, anche i presidenti di cinque centri studi e Ong come Fredoom House, Human Rights Watch e National Endowment for Democracy.
Che siano messi sotto accusa anche centri studi e Ong è evidente: monitorano la situazione di Hong Kong fornendo quotidianamente informazioni e documentazioni sull’evoluzione della situazione e sulle violazioni dei diritti umani e delle libertà civili. È un lavoro prezioso che i dirigenti della Repubblica popolare cinese evidentemente non sopportano.
Come vede la posizione dell’Italia sul dossier Hong Kong?
Poco prima della chiusura estiva il Parlamento ha approvato una risoluzione di denuncia della violazione dei diritti umani e di sollecitazione al governo, all’Unione europea e alla comunità internazionale ad agire. Sulla base di questa mozione il governo è impegnato agire di conseguenza.
Nella stessa occasione furono bocciate due mozioni, una della Lega e una di Fratelli d’Italia, che chiedevano il risarcimento alla Cina, ritenuta responsabile della diffusione della pandemia.
Abbiamo approvato una mozione di maggioranza che ci sembra avere una linea forte e giusta. Quelle della Lega e di Fratelli d’Italia esprimevano valutazioni in cui non necessariamente tutti si riconoscono.