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Chi è Jimmy Lai, il magnate dei media arrestato a Hong Kong

Il Partito Comunista Cinese e le sue marionette a Hong Kong continuano a mettere a tacere e intimidire coloro che si schierano a favore della democrazia e dei diritti umani. La nuova legge sulla sicurezza non è altro che un attacco diretto alla libertà e all’autonomia”, scrive su Twitter Rick Scott, senatore repubblicano della Florida, commenta così l’arresto di Jimmy Lai. Il mogul dei media hongkoghesi, 72 anni, ha una storia nelle posizioni critiche contro il Partito comunista cinese e per questo è finito in manette insieme ad altre sette persone (tra cui i suoi figli e sua moglie, sebbene non affiliati al suo business). Lai aveva già subito un provvedimento simile a febbraio, per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata lo scorso anno (il 4 giugno 2019, in occasione della ricorrenza di Piazza Tiananmen). 

L’accusa è di aver violato la nuova legge per la sicurezza nazionale che Pechino ha voluto come forma di stretta sul controllo del Porto profumato, provincia semi-indipendente (secondo gli accordi di handover con il Regno Unito, e con l’Occidente) diventata da tempo troppo interessata alla democrazia secondo i gerarchi cinesi. Next Digital, la società di Lai (di cui anche l’amministratore delegato è in arresto), è l’editore di Apple Daily, quotidiano piuttosto seguito e, appunto, spesso accusato dal controllo dei media del Pcc di diffondere istanze pro-democrazia. Per Pechino è “colluso con un paese straniero”, una delle formule che la nuova legge prevede per colpire dissidenti e opposizioni.

L’anno scorso il magnate dei media hongkonghesi si è recato a Washington per incontrare, tra gli altri, il vicepresidente Mike Pence, il segretario di Stato Mike Pompeo e la presidente della Camera Nancy Pelosi. “Ho sempre pensato che un giorno potrei essere mandato in prigione per le mie pubblicazioni o per le mie richieste di democrazia a Hong Kong. Ma per alcuni tweet, e perché si dice che minaccino la sicurezza nazionale della potente Cina? È nuovo, anche per me”, ha scritto a maggio in un op-ed per il New York Times in cui parlava tra le altre cose della nuova legge per la sicurezza nazionale che sarebbe stata promulgata a giugno.

Di fatto Lai è una delle voci che dà spazio alle richieste che da più di un anno segnano la vita di Hong Kong, dove la Cina sta giocando una partita dal peso strategico – annettere completamente l’ex colonia è un test per le sue ambizioni da potenza, sia simbolico (non perdere il contatto con uno dei propri territori) sia pratico (Hong Kong sarà parte di grandi progetti come la Greater Bay Area).

“La Cina spinge su Hong Kong in questo momento per lo stesso motivo per cui ha istituito una legge sulla sicurezza nazionale nella città. Trovandosi in un momento di fragilità su più fronti (reputazione internazionale danneggiata, aggravamento delle relazioni con gli Stati Uniti e gli alleati regionali, economia da far ripartire e fiducia della società civile parzialmente violata dal Partito che ha permesso che si scatenasse un’altra pandemia dopo SARS), Pechino fa quello che tutti gli autoritarismi fanno in questa situazione: tenta di stabilizzarsi entro i propri confini nazionali”, spiega a Formiche.net Giulia Sciorati, esperta di Cina dell’Ispi. Perché colpire Lai? “Il caso specifico di Lai è certamente dovuto al rinvio delle elezioni (dal 6 settembre 2020 al 5 settembre 2021) e ai dibattiti locali e internazionali al riguardo. Lai è un simbolo dei movimenti democratici, un suo arresto ricade nel tentativo delle autorità centrali di ritrovare la stabilità interna che, nel caso cinese, significa controllo del centro”.

Cento agenti hanno curato il blitz nella sua abitazione, mentre i social network di Apple Daily trasmettevano le immagini in diretta. Lai è stato l’obiettivo più alto colpito dalla nuova legge, che nel frattempo ha portato in carcere una ventina di persone e prodotto una reazione severa da parte di Stati Uniti, Regno Unito e altri paesi (Canada, Nuova Zelanda, Australia). Venerdì, l’amministrazione Trump, tra le varie mosse per rispondere alla cinesizzazione, ha sanzionato Carrie Lam, la Chief Executive che amministra Hong Kong su incarico del Partito/Stato; con lei altri dieci funzionari per “il ruolo svolto nella repressione”. L’arresto a Lai sembra quasi una misura di risposta (rappresaglia) con cui Pechino ha cercato una prova di forza.

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