“Giulio Andreotti non era un clericale, ma sapeva fare l’interesse dell’Italia e della Chiesa”. Il professore Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha scritto l’introduzione al libro del senatore a vita scomparso nel 2013, I diari segreti 1979-1989 (Solferino), curato da Serena e Stefano Andreotti. Riccardi definisce Andreotti “cattolico romano” e “cardinale esterno” e in questa intervista spiega l’intensità dei rapporti con la Santa Sede, da Pio XII a Giovanni Paolo II, e anche la Chiesa quotidiana, dai missionari ai drammi in tanti Paesi.
Quanto emerge di nuovo dell’Andreotti politico da questi diari?
Non credo che si possa dire che emergano solo nuovi episodi ed elementi, credo che i diari offrano una prospettiva originale, nuova, perché si vede l’organizzazione degli incontri di un leader politico che tanto dedica all’internazionale, non solo quando ministro degli Esteri. Non era un leder cosmopolita, nel senso di sradicato dalla sua terra: sappiamo quanto fosse presente nel ricevere le persone, ai matrimoni o nel seguire il suo collegio elettorale. Un parroco del Frusinate andava a trovarlo tutti i martedì, almeno per un periodo. Stava sul territorio, ma dal diario vediamo che radar internazionale avesse.
Nell’introduzione lei sottolinea la particolare tessitura dei rapporti, compresi quelli con la Chiesa, che era alla base della sua azione politica.
Andreotti è stato molto attento al papa, al Vaticano, alla Chiesa fin dall’infanzia. In questo senso era un romano di Roma, ma anche un italiano convinto che la Chiesa sia una grande risorsa per il nostro Paese e lo sperimentò nel secondo Dopoguerra quando il cardinale Francis Spellman e altri cardinali americani intervennero a favore dell’Italia presso la presidenza americana. Sapeva che la Chiesa cattolica è un grande attore internazionale.
E i rapporti così stretti servivano a raggiungere obiettivi precisi?
Non lo definirei un clericale, ma sapeva fare l’interesse dell’Italia e della Chiesa e non sentiva il contrasto tra le due Rome. Non per nulla abitava prima di un ponte che dà su via della Conciliazione: c’era un ponte, ma dall’altra parte del Tevere, su corso Vittorio Emanuele.
Lo definisce “cattolico romano in senso culturale”. Ci spiega perché?
Perché la romanità è un tratto profondo del cattolicesimo, oggi in parte smarrito: c’era l’identità dei preti romani, che Andreotti conosceva e frequentava. È quella romanità che rende prossimi al papa.
L’altra definizione è di “cardinale esterno”.
La Santa sede, fino a Leone XIII, aveva cardinali laici, che avevano ricevuto solo ordini minori cioè non ordinati sacerdoti. Non è questo il caso di Andreotti, laico, che era un “cardinale esterno” nel senso figurativo. Non era un cattolico qualsiasi, bensì un cattolico che contava in Vaticano soprattutto con Giovanni Paolo II, ma che fin da ragazzo era stato abituato a parlare con Pio XII e ad avere rapporti. Contava rispettosamente, ma contava. È a lui che si rivolgono i comunisti quando devono parlare con il Vaticano, in particolare nei dieci anni di questi diari, ma anche in generale.
Dai diari emerge uno strettissimo rapporto con i cardinali Achille Silvestrini e Agostino Casaroli, forse meno con Angelo Sodano?
Con Silvestrini e Casaroli aveva un lessico comune, venuto meno secondo me con Sodano pur essendo figlio di un democristiano della Coldiretti. Andreotti me ne parlava, era finita una storia, ma non era finito il rapporto con Giovanni Paolo II che stima Andreotti fino alla fine.
È corretto dire che la posizione della Chiesa e quella di Andreotti sulla politica internazionale convergevano sul totale ripudio della guerra e sulla costante ricerca del dialogo?
Direi che c’è di più. C’è lo sfondo di una generazione che ha conosciuto la guerra e ne ha orrore: questo erano Giovanni Paolo II, Silvestrini, Andreotti e tanti altri. Andreotti sapeva che il nazionalismo, i bellicismi sono pericolosi, era convinto che la Chiesa fosse una forza di pace che su questi temi la vede lunga. Infatti Andreotti, che era un anticomunista, progressivamente si schierò per il dialogo con i comunisti. D’altra parte, la Chiesa ha sempre cercato il dialogo con i sovietici: negli anni Venti il nunzio Eugenio Pacelli (poi Papa Pio XII, ndr) a Berlino andò a pranzo con il commissario sovietico agli Affari esteri Georgij Čičerin per cercare un modus vivendi. La Chiesa, anche come dialogo diplomatico, non ha mai chiuso a nessuno: come diceva Paolo VI, la nostra non è un’invettiva contro gli avversari, ma un lamento di perseguitati.
Oltre ai Sacri Palazzi, quali erano gli altri contatti?
C’era la Chiesa quotidiana in Andreotti: i missionari, le piccole drammatiche vicende della Chiesa in tanti Paesi che segue con passione. Segna sul suo diario la morte di monsignor Oscar Romero (ucciso sull’altare a San Salvador nel 1980, ndr), segue le trattative di pace di Sant’Egidio in Mozambico con puntualità. È riduttivo considerarlo un politico che aveva contatti solo nei palazzi vaticani per motivi politici. Voleva aiutare la Chiesa a vari livelli: basti pensare ai missionari, alle suore, a madre Teresa. Dunque, cattolico romano dando a quel “romano” l’idea di universalismo e cardinale esterno: due definizioni che gli si attagliano.
Nel libro lei però sottolinea la laicità dell’azione politica che emerge dai diari.
Era un laico e faceva politica laicamente. Era però differente da Alcide De Gasperi, che era un cattolico trentino, ma nello stesso tempo a lui complementare quando lancia la grande operazione che è la Democrazia cristiana in un’Italia in cui la Chiesa cattolica è decisiva.