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Conte, Zinga e l’ombra di Super Mario. Lo spiegone di Antonio Polito

Giuseppe Conte come Alcide De Gasperi, Mario Draghi come Lucio Quinzio Cincinnato. Antonio Polito non risparmia acrobatismi storici quando gli chiediamo di commentare la calda estate del governo Conte bis. In fondo, dice la firma di punta e vicedirettore del Corriere della Sera, il premier-avvocato vuole accreditarsi come presidente della ricostruzione, e ha in tasca “il suo Piano Marshall”. Come lo statista trentino, può sorvolare sulle beghe interne ai partiti della coalizione e guardare più in là, anche oltre la legislatura. A meno che la brezza estiva in autunno non si tramuti in tempesta, con un “collasso economico-sociale” del Paese. A quel punto Conte dovrebbe sì temere Draghi, “il migliore degli italiani”.

Polito, tutti parlano dell’anniversario del Papeete. Anche questo governo sta per finire spiaggiato?

Non mi sembra aria. Questo governo è fragile ma stabile, come tanti altri nella vicenda politica italiana. In questa legislatura, se vogliamo, esiste una specie di sfiducia costruttiva. Per far fuori questo governo devi averne un altro pronto, e non è facile, perché gli elettori hanno già sperimentato l’unica, possibile maggioranza alternativa. In autunno, quando finiranno bonus, provvidenze e spese di sostegno si esauriranno, può arrivare la tempesta.

A quel punto finirà il salvo-intese e si inizierà a parlare di larghe intese…

Un governo di unità nazionale può nascere, ma serve un’altra emergenza economico-sociale. Per il momento Conte è inamovibile. Un anno fa, a quest’epoca, si discuteva di manovre da pochi miliardi di euro. Oggi il governo ha approvato uno scostamento di bilancio di 100 miliardi e deve decidere come usarne altri 200. Non ci sono precedenti nella storia repubblicana. Tranne uno.

Mi faccia indovinare, Alcide De Gasperi. Lo sa che un anno fa Conte, nel giorno della crisi, era a casa della figlia?

Allora il paragone non è così azzardato (ride, ndr). Ovviamente non si mettono sullo stesso piano i due uomini e le due fasi storiche, ma l’occasione in cui si sono trovati. Conte ha il suo piano Marshall, firmato Ue. Può destinare risorse straordinarie al Mezzogiorno, come il taglio contributivo, a patto che duri anni e non pochi mesi. Può stanziare fondi per modernizzare il Paese.

Un’ombra però incombe sui piani di gloria del premier, quella di Mario Draghi. La prossima settimana parla al meeting di Cl e avrà più di un orecchio teso ad ascoltare…

Draghi non è qui con noi, è molto più in alto. È tra i migliori italiani che abbiamo, non è spendibile per questi giochi politici. A meno che non si verifichi un vero e proprio collasso economico e sociale del Paese. A quel punto servirebbe un Cincinnato che si metta a disposizione.

Dopotutto ognuno ha le sue ombre, compreso Matteo Salvini. Chi deve temere di più: Giorgia Meloni o Luca Zaia?

Bella domanda. Direi Meloni, perché la vera gara di Salvini non è interna alla Lega ma dentro al centrodestra. Arriverà forse il giorno della sfida di Zaia, non è oggi. In crisi, oggi, non è la leadership di Salvini, ma la sua idea di Paese. Quella di un’Italia chiusa, utilitarista, che ha avuto tanto successo un anno fa ed è sfumata il mese scorso, a Bruxelles. Quando ti arrivano 209 miliardi dall’Europa è più difficile tifare Borghi e Bagnai.

Perché la leader di FdI ha il vento in poppa?

Perché ha iniziato a guardare al merito delle questioni e non solo agli schieramenti. Perché, se vuole, può proporre un’altra idea di destra. Al centro rimane la patria, ma senza i vecchi retaggi nazionalisti. Una destra meno fondata sull’eversione dell’ordine costituito e più sul recupero della tradizione. Al centrodestra serve un nuovo Berlusconi. Un leader polemico con gli avversari, ma anche capace di accogliere sotto la sua tenda i moderati. Meloni può diventarlo.

Anche Conte ha i suoi avversari in casa, o presunti tali. Come Zingaretti, che le cronache di palazzo raccontano sempre più insofferente verso il premier. E se volesse staccare la spina come Salvini un anno fa?

A che pro? Questo governo lo ha voluto, lo ha fatto nascere lui. Conte era l’unico che potesse coagulare la coalizione rossogialla. Anche lo scorso anno raccontavano un segretario del Pd entusiasta all’idea delle urne, è andata diversamente. Non andrà oltre questo lungo, estenuante braccio di ferro.

Non che con il Movimento i rapporti siano idilliaci. Con una parte è quasi rottura aperta. Conte ha detto che fra Grillo e Casaleggio preferisce il primo, perché ci può “parlare di futuro”.

I Cinque Stelle oggi sono tante cose insieme, loro stessi non sanno bene quali. Sono divisi lungo binari non ideali ma personalistici. La forza di Conte non dipende da quel partito, non più. Ha portato a casa il Recovery Fund. Ora ha la possibilità di spenderlo. E, a giudicare dalle ultime promesse un po’ roboanti, come un tunnel sotto lo stretto di Messina, che, per inciso, è molto più di un ponte, sembra voglia restare ancora a lungo sulla scena politica.

Chiudiamo col caso dei furbetti dell’Inps. Sarà un terremoto?

Un altro colpo formidabile alla credibilità del Parlamento, già azzerata durante il lockdown. Come ha candidamente ammesso Casellati, è stato “invisibile” per tre mesi. Questa vicenda getta fango sulla classe politica ed elimina ogni dubbio sul sì al referendum per il taglio dei parlamentari.

Arriva una nuova Tangentopoli?

Nessuna Tangentopoli. Diciamo la verità. Moralmente, è una vicenda riprovevole. Nella sostanza, non è davvero un caso isolato. Dei parlamentari, cinque hanno preso un contributo immeritato, ma legale. Quanti altri italiani hanno fatto lo stesso? Quanti avvocati di rango, liberi professionisti? Forse è il caso di scovare l’errore del meccanismo dei bonus. E ripensare le politiche assistenziali degli ultimi mesi.

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