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Perché la crisi in Mali dipende (anche) dalla Libia. L’analisi di Giro

In Mali le cose si complicano mentre in Libia si stanno risolvendo? Chi si occupa di cose africane sa quanto le due crisi siano da sempre connesse: senza le armi (e i militanti) della Libia, la crisi del Mali non sarebbe mai giunta al punto di rottura in cui è arrivata oggi.

Da parte libica si tenta un’ulteriore mediazione tra Tripoli e Bengasi che esclude Haftar. Il generale aveva attaccato la capitale nell’aprile 2019 senza sfondare. Di conseguenza è stato progressivamente abbandonato dai suoi alleati (russi, egiziani ed emiratini) che hanno preferito una politica più realistica, ignorando le posizioni europee. Tripoli aveva resistito ad Haftar con le armi e gli uomini inviati dalla Turchia: miliziani siriani e droni. Ora Mosca ed Ankara rieditano in Libia l’alleanza competitiva che hanno in Siri. Ognuno ne trae un guadagno: Ankara è alle porte d’Europa da sud e avrà la sua base navale a Misurata (allontanando gli italiani); Mosca ha la sua base aerea a pochi minuti di volo da Sigonella; l’Egitto si libera di un alleato scomodo e rissoso come Haftar e rientra nei giochi; agli emirati basta far sentire la loro presenza.

C’era anche da risolvere un delicato problema tra sunniti: salafiti vs Fratelli musulmani. Il Cairo guarda ai Fratelli musulmani come a dei nemici mortali. La Turchia che li sostiene a Tripoli si è ora impegnata a non allungarne l’influenza né a Sirte né a Bengasi e questo basta (per ora) al Cairo per respirare. Sirte diverrà una specie di zona franca del tipo cuscinetto ammortizzatore tra i due schieramenti. Quello che le armi di Haftar non gli hanno dato, al Sisi lo ha avuto dalla diplomazia. Da vedere se il vecchio generali libico si lascerà fare facilmente.

Sul versante maliano avviene – con uno stile diverso – qualcosa di simile. Come in Libia, anche a Bamako Francia, Europa (Italia e Germania incluse) e Onu, pur avendo circa 30.000 militari sul terreno, non contano più granché e non vengono prese in considerazione. Sotto il loro naso si è svolto un golpe che nessuno ha visto arrivare (pur conoscendo le tradizioni del paese…). Qualcuno dice che si tratta di ingerenza russa perché uno dei capi militari della giunta è stato formato a Mosca. Anche se su questo non c’è certezza, ciò che è sicuro è che i nuovi uomini forti in Mali non chiedono il permesso a nessuno e hanno dalla loro parte la simpatia della piazza (che manifesta da giugno) che in questo caso è nelle mani degli estremisti islamici.

Di conseguenza la guerra al jihadismo che per l’Occidente è una priorità, per i golpisti non lo è più così tanto. Infatti si contentano di controllare il “Mali utile” quello non desertico, accettando di lasciare alla jihad quello “inutile” cioè il deserto. Quello stesso deserto dove si affaccia la Libia e da dove sono venute sia le armi per i jihadisti sia le nuove reclute che hanno permesso di strappare allo Stato del Mali enormi estensioni.

Quanto preoccupa i militari di Bamako se il jihad tiene stabilmente il nord del paese, se lambisce l’Algeria (da cui proviene fin dalla fine degli anni Novanta) e se si estende in Niger per confluire in Libia? Nessuno lo sa con certezza anche se dal 2012 e fino ad oggi nessun evento militare di una certa importanza può corroborare lo spirito militare dei colonnelli di Bamako. In genere si tratta di alti gradi che preferiscono starsene nelle caserme accanto alla capitale piuttosto che andare a combattere nel deserto. Il colpo di Stato ha certamente eliminato una classe politica inefficiente e corrotta ma non sappiamo se vorrà riprendere l’agenda che interessa l’Europa e l’Occidente. È dunque consigliabile instaurare subito un dialogo serio con costoro prima che lo facciano altri con altre intenzioni. L’Europa non può restare a guardare nascondendosi dietro il politicamente corretto della semplice condanna formale del putsch: serve qualcosa di più incisivo se si vuole restare in gioco in quest’area così decisiva per i nostri interessi.



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