La piazza di Beirut indica la guerra civile o la rivoluzione? Ieri di certo ha detto “noi o loro”. “Noi”, il Libano che si è convinto di essere stato preso in ostaggio, “loro”, coloro che ai loro occhi li usano come scudi umani. Ma chi è che avrebbe preso in ostaggio chi? Una comunità, quella sciita, ha preso in ostaggio le altre?
No. La piazza di Beirut sostiene che è una cultura che ha preso in ostaggio un mondo, il loro. La lettera di solidarietà ai popolo libanese inviata ieri sera da centinaia di oppositori siriani e che punta il dito contro Hezbollah, la sua cultura di fondo, lo conferma. Le centinaia di nuovi feriti negli scontri di piazza tra manifestanti e forze dell’ordine lo testimonia. Questa cultura è il totalitarismo apocalittico. E’ che cos’è? Vediamo meglio.
Quando i manifestanti sono entrati nel grande palazzo del ministero degli esteri e hanno dichiarato Beirut città smilitarizzata non hanno forse detto “o noi o Hezbollah”? Hezbollah è il vero dominus politico libanese. Ma che cos’è Hezbollah? Dagli anni ‘80 Hezbollah si presenta come il braccio armato della “resistenza” al nemico esterno e sopraffattore, e tanti lo hanno creduto, condiviso. Dunque cosa è accaduto ieri in piazza a Beirut? Cosa può spiegarlo?
Qui c’è una risposta. Ancora non era cominciata la manifestazione di ieri quando R.H., da Beirut, ha fatto sapere il caso di chi il giorno prima, trovato il corpo del proprio figlio deceduto nell’esplosione, per poterlo seppellire ha dovuto primo pagarne la multa per eccesso di velocità che rimaneva ancora inevasa. Una cultura di governo contro il popolo debole e corrompibile nel nome di una difesa totale contro i valori del mondo corrotto arriva sin qui.
Ora tutto questo è chiaro ai libanesi e non lo accettano più. Forse per trovare la strada giusta alla comprensione reale di cosa bolla nell’animo beirutino occorre trovare la terza via nella modalità di approccio. La prima guarda la sofferenza che gli inauditi eventi del 4 agosto hanno prodotto. I volti, le storie, le fini, lo sgomento individuale di tanti individui. La seconda cerca l’essenza di quanto è accaduto: chi, come, quando, dove, perché. La terza esce dalla cronaca, inquadra l’evento nel suo contesto psicologico, emozionale, profondo. Ha senso provarci? Credo di sì.
I dolori infatti sono tutti uguali, non c’è un dolore che davanti ad analoga sofferenza conti più di un altro. I dolori però sono anche tutti diversi, producono paralisi o moti di rabbia, avvilimento o ribellione. Torniamo al fatto politico più sorprendente: il colloquio tra i beirutini e Macron. Cosa ha detto quell’invocazione, “salvateci voi da questi criminali”?
Già nella richiesta di salvezza dall’esterno si scorge il permanere di un problema profondo: confidare nell’uomo della provvidenza, ma emerge anche una consapevolezza che potrebbe essere quella salvifica: salvateci voi vuol dire anche “abbiamo sbagliato”. E quale errore avrebbero fatto loro, i feriti, i laceri, gli offesi, i ridotti in miseria? Probabilmente rivolgendosi a Macron hanno detto che il loro errore è stato quello di aver accettato la scorciatoia culturale di chi gli diceva “ si vince sconfiggendo il nemico esterno, la causa di tutti i nostri mali”.
Beirut è il luogo ideale per questo confronto: città di incontro, di ricerca, di scambio, è convissuta da decenni con il suo entroterra di mal compresa fierezza, di chiusura identitaria, di conservazione tribale, di autotutela miliziana. Questa doppia natura è sopravvissuta in tanti, differenziandoli cinque giorni a settimana, quelli che vivono in città, dai loro fratelli rimasti in montagna, ma riportandoli a quello che erano durante il sacro week end, quando tornano nel loro villaggio d’origine.
Ed la vecchia cultura che li ha condotti a sbagliare, che ha affermato che la rivalsa per l’umiliazione del 67 sarebbe venuta sullo stesso terreno dove si era materializzata. Questa idea comportava una militarizzazione della religione, una perdita del senso di sé, una trasformazione della propria vita sociale in un assoluto miliziano. Chi ha capito che questo si sarebbe potuto fare solo con una militarizzazione nell’appartenenza totale è Hezbollah, che ha trasformato il Libano in uno scudo collettivo di se stesso per poi estendersi in Siria, Iraq, Territori Palestinesi, Yemen e ancora.
Ora succede però che questa visione ha presentato il suo devastante conto. La bancarotta del Libano è stata il prezzo pagato da ogni libanese all’imperialismo miliziano e al tribalismo, uniti nel rifiuto dei valori della cittadinanza. E il disastro del 4 agosto ha comprovato che in questa visione i cittadini non possono che essere scudi umani. Lo ha scritto esplicitamente Khamanei nel suo messaggio di cordoglio ai libanesi: “ la pazienza dinanzi a questo incidente sarà un’altra pagina d’oro tra le glorie del Libano”. Da non credersi…eppure è così.
Questa visione del conflitto e della vittoria è partita dalla confessionalizzazione della questione palestinese per poi farsi confessionalizzazione dello scontro inter-arabo, quello che abbiamo visto in Iraq, Siria e ora in Libano. I cristiani guidati dall’attuale presidente del Libano, il maronita Aoun, hanno accettato questa visione: non c’è altra strada che scegliere, ha detto in buona sostanza Aoun, e la nostra scelta è allearci con Hezbollah e l’Iran.
Così un establishment malato di tribalismo si è unito a quello miliziano. Qui lo Stato non esiste. E non esiste neanche nella larga maggioranza del ceto politico di opposizione, che si è contrapposto a costoro ma con metodi di governo molto simili. Ora però la piazza grida che l’errore è stato pensare di cercare il riscatto per l’umiliante sconfitta del ‘67 sul terreno militare e non su quello culturale, economico, imprenditoriale. Germania e Giappone non hanno fatto così?
Ma per ritrovare fiducia in se stessi contro nemici che hanno in mano tutto il potere e disprezzano l’individuo, per ridare prestigio alla civiltà araba riportando a brillare la qualità incalcolabile del Levante, per riuscire in questa grande catarsi, il passo compiuto, capire che l’errore è stato accettare l’odio come motore e non la leadership imprenditoriale e culturale per poi ottenere il sostegno del mondo nelle proprie richieste di pace, appare decisivo ma non sufficiente: occorre un sostegno esterno. Beirut ci dice che è possibile. La piazza di Beirut ha voltato le spalle al totalitarismo apocalittico di Hassan Nasrallah.
Questo evento storico ci spiega con lenti diverse tutto quello che è successo dal 2011 in poi. Non lo abbiamo voluto capire perché ci interessava che rimanesse il vecchio bipolarismo: assolutismo islamista o dispotismo filo occidentale. La piazza di Beirut prova a capovolgere il tavolo e dichiara lei, in modo stupefacente, Beirut “città smilitarizzata”. Lo fa con collera, certo, ma nella scelta dello slogan si vede la luce. Così il problema da oggi è nostro. Vogliamo davvero rifare il Mediterraneo? E’ possibile, proprio partendo da Beirut, l’ennesima vittima dopo Homs, Aleppo, Mosul, Sana’a e tante altre città martiri del milizianesimo. Ma a differenza di queste altre città martiri il martirio di Beirut, almeno nel suo atto finale, lo abbiamo visto. Non è come gli altri martirii, di cui non abbiamo contezza.
Ecco, davanti a questo martirio nessuno è caduto nel gioco perverso del nemico esterno. Comunque siano andate le cose, dicono i manifestanti di Beirut, qualcuno ci ha usati come scudi umani. Ora ci chiedono di ripartire. Ma nessun malato di cancro può curarsi da solo. Servono farmaci, forse chirurghi, cioè serve un aiuto esterno. Dunque la scelta è se rifare l’errore del 2011 o seguire la strada almeno formalmente indicata da Macron. La conferenza dei donatori di oggi è di certo un primo passo importante. Poi arriverà la cruciale giornata del 18 agosto, quando il Tribunale Internazionale renderà nota la sentenza per il delitto Hariri. Quel giorno ci dirà cosa vuol dire il “noi o loro” che urla la piazza di Beirut. Le società arabe grazie al grande sforzo dei libanesi sono pronte a scegliere un’altra via? Ci rendiamo conto di quanto sia cruciale per noi dirgli “ci siamo”?