Ho da sempre una sconfinata ammirazione per il New York Times e per ciò che rappresenta. Un faro liberal nel mondo culturale di quell’universo complesso che risponde al nome di Stati Uniti d’America.
Proprio questa ammirazione e l’aver seguito la complessa evoluzione del quotidiano, oggi in buona misura una realtà digitale, mi spinge a non accettare in modo acritico ogni sua parola.
Il lungo e argomentato pezzo dedicato al nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, la durissima critica alla decisione di condividere i meme sulla sua abbronzatura esagerata, mi hanno lasciato perplesso. Sia chiaro, sono della scuola di pensiero, secondo la quale un ministro degli Esteri può anche astenersi da un’attività social di stampo adolescenziale, senza inficiare minimamente il suo operato. Detto questo, non mi sfuggono portata e caratteristiche della politica di oggi, fatta anche di uso e abuso dei social. Riguardo ai quali gli stessi Stati Uniti d’America non credo possano darci lezioni.
Proprio pensando a Trump, non vale (non dovrebbe, almeno) il comodo distinguo sulla parte politica, repubblicana o democratica, Movimento 5 Stelle, Lega o Pd. Il New York Times ha criticato il ministro degli Esteri della Repubblica Italiana, non un esponente grillino. Ci permettiamo, allora, di ricordare all’autorevolissimo quotidiano della grande mela di quale tradizione culturale e sociale sia erede Luigi Di Maio. L’attuale titolare della Farnesina è campano, per abbreviare napoletano. Non ce la sentiremmo di lanciarci in distinzioni sui pochi chilometri fra il capoluogo partenopeo e la città natale del ministro, Pomigliano d’Arco. Anche chi scrive è partenopeo e sarebbe interessante ricordare agli editorialisti del Times – a proposito di blackface – quanto i neri napoletani siano stati tutt’altro che un’eccezione, per l’intero secondo dopoguerra. Erano i tantissimi figli di amori fugaci fra figlie di Partenope e i soldati delle truppe di occupazione. Quei volti americani, spesso di colore, che per alcuni lustri entrarono a far parte dell’immaginario popolare napoletano, invadendo con la cioccolata e la “cingomma” non solo le nostre strade, ma i detti popolari, le poesie, la musica. Nel 1944 – appunto – viene composta da Nicolardi e E.A. Mario la Tammurriata nera, che faceva così:
È nato nu criaturo niro, niro
e ‘a mamma ‘o chiamma Ciro,
sissignore, ‘o chiamma Ciro.
Questo non è blackface, è come siamo cresciuti anche noi, arrivati molti anni dopo la fine della guerra. È una eredità, un modo di pensare, di vivere, lontano anni luce dalle tensioni razziali di ieri e di oggi degli Usa.
No, non oseremmo sostenere che l’Italia non abbia in assoluto un problema legato a possibili rigurgiti razzisti o confuse eredità sub-culturali di questi nostri tempi. Però, ci sia consentito non tanto difendere Luigi Di Maio, ma la nostra storia. La nostra tolleranza, che a Napoli in modo particolare è sempre stata una tolleranza di strada, di vita vissuta.
Non di rado, in Italia, attori di colore di film demenziali o surreali venivano doppiati con accento napoletano, per accrescerne lo spunto comico. Noi, i neri dal dialetto partenopeo li abbiamo sempre visti nella realtà, magari erano i papà dei nostri compagni di classe.
Chi è cresciuto con Totò e il sax di James Senese non può fare blackface.