Il Libano arriva a celebrare il suo primo secolo di esistenza, ma l’idea di molti è che dopo il traguardo, ormai raggiunto, ci sia solo l’ignoto. Basti considerare che un mese fa, il 4 agosto, la sua capitale è stata devastata dall’inaudita esplosione che ha polverizzato il porto e tutto quel che si è saputo fare è stato evitare un’inchiesta internazionale. Lo stesso governo, dimessosi pochi giorni dopo, è ancora lì e solo oggi saranno avviate le consultazioni per designare il nuovo primo ministro, il cui nome è emerso però ieri: il premier Diab sarà sostituito dal diplomatico Adib. Un anagramma che dice tutto: nulla cambia.
La scelta è stata fatta dopo telefonate tra i vari capi politici libanesi e il presidente francese Macron, che sarà a Beirut appena dopo l’ufficializzazione della scelta, alla quale ha concorso parlando al telefono con il presidente Aoun. Uno spettacolo desolante, con il Paese in ginocchio per la gravissima crisi economica (il Libano è in default), l’espandersi dei contagi pandemici e il ritorno di scontri armati tra opposte fazioni a ridosso di Beirut. Un secolo dopo il Libano sembra avere le ore contate e l’invocazione di urgenti e profonde riforme lo conferma.
Chi ha avuto il coraggio di dire chiara e tonda la vera riforma di cui il Paese ha bisogno per salvarsi è stato il patriarca maronita, cardinale Beshara Rahi, che sebbene con grande ritardo ha però detto: “Solo il governo può dichiarare guerra: tutte le armi devono essere sotto il controllo del governo”. Questa banalità in Libano suona rivoluzionaria visto che il partito ormai di maggioranza relativa, Hezbollah (Partito di Dio), pretende di poter intervenire in tutti i conflitti regionali con la sua milizia e di poter attaccare chi voglia. Non a caso le parole del cardinale sono state definite “filo-israeliane” da giornali vicini al Partito di Dio.
In serata poi l’intervento del patriarca è stato di fatto al centro del discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica, il maronita Michel Aoun, principale alleato del Partito di Dio. Rivolgendosi alla nazione in un inatteso discorso televisivo Aoun ha detto che per realizzare le riforme tanto attese per salvare il Libano lui proporrà delle riforme istituzionali per fare del Libano uno stato civile. Ma per seguire la strada indicata dal patriarca non servono riforme istituzionali, ma politiche. Dunque a cosa si riferisce Aoun?
Depredato da una classe politica clanica e tribale che ancora oggi è guidata dalle famiglie o dai leader (come Aoun) che guidavano le fazioni libanesi durante i quindici anni di guerra civile iniziata nel 1975 e conclusasi nel 1990, il Libano esiste in virtù di un sistema confessionale che garantisce la presidenza della repubblica ai cristiani maroniti, la presidenza del governo ai musulmani sunniti e la presidenza dell’unica camera ai musulmani sciiti.
Così non esistono partiti, ma raggruppamenti confessionali che eleggono i deputati in base a quote che li dividono al 50% per i musulmani e al 50% per i cristiani. È probabilmente a questo sistema che ha fatto riferimento Aoun parlando di passaggio a uno “stato civile”. Ma gli accordi di pace del 1990 già contengono la formula per uscire dal confessionalismo: vi si prevede la prospettiva di creare due Camere, una confessionale, per dare garanzie alle varie comunità religiose, e una politica, eletta in una competizione dove a confrontarsi sarebbero partiti politici, per dare diritti agli individui. Questo secondo ramo del Parlamento non è stato mai creato, per la netta contrarietà della ex potenza militare che ha occupato il Libano fino a pochi anni fa, la Siria, che ha preferito puntare su un consociativismo interconfessionale delle élite, “l’establishment” che si è insediato al potere controllando le varie comunità. Come si potrebbe passare a un sistema di voto non confessionale senza partiti politici interconfessionali? Un esempio: il Libano un partito politico, interconfessionale, lo ha conosciuto, è il vecchio Partito Comunista Libanese e molti comunisti venivano proprio dalla comunità sciita, quella oggi egemonizzata da Hezbollah. Questo piccolo esempio rende evidente che la proposta di Aoun, nel quadro politico odierno, potrebbe produrre il governo monocolore della comunità confessionale maggioritaria. Lo “stato civile” di cui parla Aoun difficilmente appare conseguibile da questo establishment, occorrerebbe prima scardinare la militarizzazione delle comunità e quindi le milizie che le controllano.
Infatti per i libanesi oggi il conflitto non è tra parti politiche, ma tra establishment che si è impossessato del potere e delle ricchezze del Paese e società civile, che vorrebbe liberarsi di questo tappo oppressivo ma non ha il modo di farlo da sola. Ha bisogno di un aiuto esterno.
Davanti all’esplosione del porto commerciale di Beirut, che nessuno aveva distrutto di tempi dei fenici, la società civile libanese però ha fatto qualcosa di enorme. Quando “l’establishment” ha cercato di vendergli la versione che a far esplodere il porto di Beirut era stato un cargo di fuochi d’artificio la cui esplosione aveva dato fuoco a un deposito di tonnellate di nitrato d’ammonio sbadatamente tenuto lì da anni, il Libano è sceso in piazza, rabbioso: quei fuochi d’artificio non erano le armi di Hezbollah? Quel nitrato d’ammonio non serviva a fabbricare altre armi clandestine, da anni? Il Libano è ostaggio, i libanesi sono scudi umani?
Ecco dunque perché il patriarca maronita ha detto quel che ha detto: la sola riforma che può consentire al Libano di non morire ostaggio di guerre altrui è affermare che solo il governo può dichiarare guerra e che tutte le armi devono essere sotto il controllo dell’esercito. Fatto questo il Libano si libererebbe della sua minaccia di morte, potrebbe trovare un altro gruppo dirigente tra la sua qualificatissima società civile e a quel punto potrebbe discutere di quelle riforme istituzionali che certamente migliorerebbero la qualità della sua vita democratica. La società civile ha fatto anche più di quel poteva, ha sfidato i poteri militari, la logica del nemico esterno, i miliziani che per strada minacciano con i bastoni chi protesta. Ora sta al mondo, e al suo inviato Macron, scegliere se aiutare l’establishment o la società civile.