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Più che la Farnesina, il Vaticano. Sisci spiega la visita del ministro cinese a Roma

Coronavirus

Quando si tratta di rapporti diplomatici con la Cina, chiedere consiglio dalle parti del Vaticano non è mai una cattiva idea. Francesco Sisci, sinologo, docente alla People Univerisity di Pechino, fa una tara dell’incontro fra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il suo omologo cinese Wang Yi a Villa Madama e dice: andava preparato meglio. Ma forse la visita del funzionario di Xi Jinping guardava più Oltretevere che alla Farnesina.

Professore, perché è scettico?

Partiamo da un presupposto. Fare politica estera è difficile. Farlo con la Cina lo è ancora di più. Ci vogliono preparazione, competenza, visione. Da due anni a questa parte è stata commessa qualche leggerezza.

Anche in questa visita?

La direzione non mi sembra diversa. Era un’occasione importante. La prima visita del ministro degli Esteri cinese in Europa dopo il Covid-19, nel mezzo di una Guerra Fredda fra Cina e Stati Uniti. Un messaggio politico cruciale della Cina al mondo, e viceversa. Perché questa visita? Qual è l’agenda della politica estera italiana? Sono domande che avrebbero meritato risposte più chiare.

Una parola chiara però è stata detta: su Hong Kong Di Maio non ha usato i guanti.

Vero, ma anche qui c’è da chiedersi se i modi e i tempi fossero opportuni. Era davvero necessario incontrare a Roma un ministro degli Esteri per fargli la ramanzina? L’impressione è che, volendo contentare sia gli americani che i cinesi, non abbiamo fatto contenti né gli uni né gli altri. Ma forse la tappa a Roma non si è fermata al di qua del Tevere.

Parla del Vaticano? In questi giorni si sono inseguiti rumors di un faccia a faccia di Wang con la Santa Sede.

Non abbiamo conferme. Ma sicuramente l’occasione era propizia. A metà settembre scadrà l’accordo fra Cina e Vaticano siglato due anni fa, dovrà essere rinnovato e ci sono ancora dei nodi da sciogliere. Era delicato all’epoca della firma, lo è ancora di più oggi nel mezzo di una Guerra Fredda.

Quell’accordo è ancora molto divisivo fra i cattolici.

Anche per questo la Santa Sede procede con grande prudenza. Ad ogni modo, le voci contrarie restano ad oggi minoritarie.

Quali sono i punti più spinosi?

Il contenuto è riservato. Certamente c’è il problema della nomina dei vescovi, di non facile soluzione. I governi locali hanno rapporti complicati con le rispettive comunità cattoliche, che a loro volta sono molto divise al loro interno. Il governo centrale non può intervenire più di tanto. Checché se ne dica, non è facile per uno Stato che governa un miliardo e mezzo di abitanti intromettersi in controversie che riguardano comunità di 50, 60mila cinesi.

Torniamo a Wang. C’è il ministero degli Esteri dietro la revisione?

C’è anche il ministero degli Esteri. La valutazione finale ha alle spalle una struttura più articolata. Un organo importante, ad esempio, è il Fronte unito, un ministero del Partito comunista cinese (Pcc) che si occupa di coesione sociale e religiosa all’interno della Cina.

Sullo sfondo c’è il tema dei diritti umani. Gli attivisti democratici a Hong Kong, così come altre minoranze perseguitate, vorrebbero sentire di più la voce dei Sacri palazzi.

Non credo che la Chiesa possa entrare direttamente nella vicenda. Storicamente non lo ha mai fatto. È semplicistico dipingerla come la paladina dei diritti umani. Non dimentichiamo che, quando papa Giovanni Paolo II andò a Solidarnosc, non invocò una crociata contro il governo comunista e il generale Jaruzelski. Avrebbe potuto farlo, in un Paese dove il 99% degli abitanti era cattolico, e invece decise di mediare. In Cina peraltro non esiste un movimento di massa, una forza di opposizione rappresentata dai cattolici.

Cosa può fare allora la Chiesa?

Interviene e ragiona in modo diverso. Si impegna di un’opera di mediazione, che però è sempre preceduta da uno studio, dalla conoscenza. Non cerca il minimo comune denominatore. E forse su questo la politica italiana ha qualcosa da imparare.

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