“Sono contento che il ministro Luigi Di Maio abbia sollevato il tema dei diritti umani a Hong Kong durante l’incontro con Wang Yi. Ma non è sufficiente”. Esordisce così Nathan Law, 27 anni, avvocato e attivista del movimento democratico a Hong Kong, co-fondatore insieme a Joshua Wong del partito Demosisto. In esilio a Londra da quando è entrata in vigore la legge sulla Sicurezza nazionale cinese, Law è diventato il punto di riferimento per il movimento di protesta all’estero.
È venuto a Roma, invitato da una delegazione di parlamentari composta, fra gli altri, da Lucio Malan (Fi) e Federico Mollicone (Fdi), ma anche dall’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata e dall’attivista radicale Laura Harth. Obiettivo: convincere Di Maio a difendere la causa di Hong Kong di fronte al suo omologo cinese Wang, nel bilaterale a Villa Madama.
Un sit-in di Law sul piazzale della Farnesina di fronte a un drappello di cronisti ha preceduto la conferenza stampa. Dove, in effetti, il ministro pentastellato ha esordito invitando il governo cinese a rispettare il principio “Un Paese, due sistemi” messo a rischio dalla nuova legge e promettendo che l’Italia monitorerà da vicino, insieme all’Ue, la sua applicazione.
È più del previsto, ma non è abbastanza, confida Law a Formiche.net in serata. Perché se è vero che Di Maio non ha usato mezzi termini, è anche vero che “l’autonomia di Hong Kong non va preservata, è già stata distrutta”. L’Italia, spiega l’attivista, il più giovane parlamentare eletto al Consiglio di Hong Kong a 23 anni, poi fatto decadere dalle autorità per aver citato Ghandi durante il giuramento, “dovrebbe condannare la legge di sicurezza nazionale e implementare delle contromisure”.
“Nessuno è così naif da dire: smettete da un giorno all’altro di fare accordi con la Cina”, sospira Law. Ma il rischio di fermarsi alle promesse sulla carta è concreto. Specialmente quando si chiama in causa l’Ue, che “troppo spesso viene usata come scudo per giustificare l’inerzia. Bruxelles ha usato dure parole, ma ci sono Stati membri, come la Germania, che sono passati ai fatti, introducendo dazi e sanzioni sull’export militare. Si può fare anche business con dignità, difendendo i diritti umani”.
C’è un filo di disillusione in questo giovane ventisettenne che per la prima volta ha dovuto fare i conti con la politica italiana e non ne ha tratto un’immagine idilliaca. La sua visita è passata inosservata a gran parte dei parlamentari (tranne 17 che hanno sottoscritto la sua lettera a Di Maio). Non è andata così a Londra, dove poco dopo il suo arrivo ha incontrato le massime autorità per poi avere, a fine luglio, un colloquio privato con il segretario di Stato americano Mike Pompeo.
“Cosa faremo adesso? Continueremo ad accendere i riflettori su Hong Kong, lavoreremo per creare una coalizione internazionale”. Gli chiediamo se la battaglia per l’autonomia non sia già considerata persa. Si ferma un attimo, poi risponde: “Il principio ‘Un Paese, due sistemi’ è già andato, questo sì. Ma si può ancora fare molto per garantire la sicurezza e la vivibilità dei cittadini hongkonghesi, i valori democratici non muoiono con un battito di ciglia, ma con una lenta eutanasia, nell’indifferenza generale. La comunità internazionale deve fare la sua parte”.
Non sfugge a Law che l’Italia sia un tassello chiave per cambiare le sorti della partita. Anche per questo, forse, si aspettava di più. Senza contare che, qui come su altri Paesi europei alleati degli Stati Uniti, incombe ora una scelta radicale: ammettere o meno le aziende cinesi nella rete 5G. Il fondatore di Demosisto non ha dubbi. “In Cina queste aziende tech non sono indipendenti, sono un braccio del Pcc. Voglia o no, Huawei deve rispettare l’agenda del partito, accondiscenderne la volontà. Non è saggio coinvolgerla nella gestione dei dati dei cittadini italiani”.