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Non solo Francia, perché in Libano c’è spazio per l’Italia. Parla Milo Hasbani

Di Emanuele Rossi e Uberto Andreatta
libano

Nato nel 1948 a Beirut, Milo Hasbani, proviene da una famiglia di commercianti ebrei originari della Damasco che aveva ottenuto l’indipendenza effettiva dalla Francia nel 1946 – non senza l’aiuto del Regno Unito – e da cui erano fuggiti l’anno prima che Milo nascesse, a causa dell’insorgere di un diffuso sentimento anti-ebraico. “A Beirut l’ambiente ci è parso subito, diversamente dalla Siria che avevamo lasciato, ospitale e accogliente non solo per gli Ebrei, ma anche per i Cristiani e gli Armeni.”

Nella capitale libanese, il giovane Milo inizia il percorso di studi all’Alliance Française; le sue lingue sono il francese e l’arabo, correntemente parlato in famiglia. Fu solo con il successivo passaggio in Israele nel 1956, “avvenuto per libera scelta e non per ragioni persecutorie”, precisa, che comincia ad apprendere l’ebraico, grazie anche alla sua somiglianza con l’arabo. La famiglia Hasbani approda poi nei primi anni ’60 nell’Italia del boom economico. Milo entra nell’azienda di famiglia creata dal padre e diventa imprenditore. Alla fine del secolo scorso comincia il suo impegno come consigliere di quella comunità di Milano, che presiede dal 2019 dopo un quadriennio di co-presidenza. Siede anche nel consiglio dell’Ucei.

Il suo è quindi un punto di vista privilegiato per interpretare quanto sta accadendo nel Libano, Paese che accolse la sua famiglia nell’immediato Dopoguerra, e più in generale nel Levante, anche alla luce dei recenti accadimenti a cascata regionale che potrebbero seguire l’esplosione al porto e le dimissioni del governo Diab.

“Il male che attanaglia il Libano in questa fase e il senso profondo del malcontento della popolazione ha origine nella corruzione diffusa a livello governativo e nell’agenda politica settaria che caratterizza in particolare la fazione sciita di Hezbollah e i suoi alleati siriani e iraniani” sostiene Hasbani. “Il sistema istituzionale libanese che contempla un’articolata condivisione del potere, pur con tutti i suoi difetti, non sarebbe in sé da smantellare o quanto meno ci sarebbe troppa incertezza su cosa verrebbe dopo. Quel che manca è la volontà di chi persegue obiettivi settari di convivere in pace. Senz’altro Ebrei, Cristiani e Armeni (con cui intrattengo rapporti e mi confronto abitualmente) vogliono un Libano stabile e improntato all’armonia tra le varie anime. Anche gli altri Ebrei italiani di origine libanese non hanno mai reciso i rapporti con il Paese dei Cedri, il senso di attaccamento è ancora alto e ci tornano volentieri, diversamente da quanto accade, ad esempio, agli Ebrei di origine libica”, aggiunge

Il fattore accoglienza da cui germina un senso di appartenenza ricorre anche quando viene toccato il tema del ruolo di Israele in questa fase. “Israele vive sin dalla sua nascita in costante stato di allarme e non credo che quanto sta accadendo ora in Libano ne stia alzando in modo significativo il livello. Israele è stato uno dei primi paesi ad offrire il suo aiuto al Libano dopo l’attentato, (scelta del termine particolare, sebbene per ora si parli solo di cause accidentali dovute all’incuria, ndr) malgrado sia compito di chi si occupa di sicurezza a Gerusalemme di tenere monitorata continuativamente la situazione e semmai di rafforzare i presidi alle frontiere e rispondere proporzionalmente a provocazioni qualora le tensioni interne libanesi trovino uno sfogo al di là del confine meridionale. In ogni caso, data la delicatezza della situazione, Israele dovrebbe astenersi dal compiere azioni in territorio libanese, il cui esito contribuirebbe a destabilizzarne ulteriormente l’assetto anziché stabilizzarlo. Piuttosto, l’impegno dovrebbe essere rivolto a sostenere fattivamente il programma di aiuti che la comunità internazionale sta mettendo in campo in questi in giorni, esattamente come già si fece, da parte israeliana, quando si trattò di prestare assistenza medica ai profughi siriani in fuga dai bombardamenti”.

E il ruolo dell’Italia? Hasbani lo mette innanzitutto a confronto con le prime mosse del presidente Macron, forse a dimostrazione di quanto siano ancora forti l’influenza della cultura francese sin dai primi anni di vita e il ricordo di quando la sua famiglia dovette abbandonare la Siria proprio quando il dominio francese venne meno. “Quando è andato a Beirut, Macron non ha fatto un discorso politico, settario, improntato alla divisione. Ha parlato al popolo, l’ha incoraggiato a recuperare quello spirito di armonia e di pacifica convivenza tra le varie confessioni ed etnie unico antidoto alla disgregazione e alla violenza di parte, nella maggior parte dei casi originata da interessi strategici di potenze dell’area che non hanno a cuore un Libano indipendente e sovrano”.

“L’Italia dunque – prosegue – dovrebbe superare l’attuale fase di indecisione e adottare un’agenda simile: partecipazione concreta al programma internazionale di ricostruzione, offerta di un contributo decisivo per la stabilizzazione innanzitutto economica del Paese, ristabilimento dei legami commerciali. Del resto, il Libano è geograficamente più vicino a noi di quanto lo siano, ad esempio, realtà molto fiorenti sul piano commerciale come Dubai o altri centri del Golfo”.

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