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In Libano è esplosa anche la piazza. Ecco cosa sta succedendo a Beirut

Le forze di sicurezza sono intervenute coi lacrimogeni e le unità antisommossa per disperdere la folla scesa in strada a Beirut a protestare contro le autorità. Ci sono stati scontri violenti, un poliziotto è morto oltre duecento persone ferite. Sono i giovani soprattutto – come nei mesi finali del 2019 – a manifestare l’insofferenza verso le condizioni del paese. Cori contro il presidente Michel Aoun, gigantografie di Hassan Nasrallah, leader del gruppo politico armato Hezbollah, appese con un cappio al collo; ma le corde attaccate a una forca improvvisata erano molte, a indicare che per i libanesi la responsabilità della tragedia del porto è ampia. L’onda d’urto sociale dopo l’esplosione devastante del 4 agosto sarà lunghissima, perché quelle che è successo è un manifesto della situazione in cui la classe politica libanese ha portato il paese. Specchia tutti i difetti, tutte le complicazioni, tutte le faglie interne al Libano.

In un segno di disgusto nei confronti dell’intera classe politica, una delle emittenti più seguite e importanti del paese, LBC, ha annunciato venerdì  che non avrebbe più trasmesso alcun discorso o dichiarazione dei leader sulla possibilità di creare un’indagine sull’accaduto. Ci sono 150 morti, 5mila feriti e ancora una sessantina di dispersi. Il boicottaggio senza precedenti di LBC ha significato che venerdì non sono stati trasmessi né i discorsi di Aoun, né del leader Nasrallah, entrambi intervenuti per parlare a un popolo con cui non hanno più troppo contatto.

Nessuno dei politici libanesi si è ancora presentato sui luoghi del disastro: troppo alto il timore, troppo alto il rischio di disordini. E d’altronde, nella visita del presidente francese, Emmanuel Macron, primo leader mondiale a recarsi a Beirut, il messaggio è uscito chiaramente: aiutateci a liberarci della nostra classe dirigente, chiedevano i libanesi; serve una commissione di indagine internazionale, ha proposto il capo dell’Eliseo che è stato durissimo con la leadership locale, sebbene abbia promesso aiuti ai cittadini – pensando anche a esigenze e volontà di politica interna ed estera di Parigi.

“Tre settimane fa mi è stato detto che c’erano sostanze pericolose al porto. Avevo ordinato ai nostri militari di spostarle”, ha detto Aoun venerdì  in Tv, cercando un modo di tenersi a distanza dai fatti. Nelle sue dichiarazioni non ha escluso nessuna delle possibilità: attentato, attacco, incidente. “È possibile che sia stato un intervento esterno, magari un missile o una bomba”, ha aggiunto, sfruttando la classica evocazione populista di un nemico da fuori (nota: le immagini che girano sui social network di un missile che centra il magazzino sono fasulle, un lavoro, nemmeno egregio, di Photoshop: lo spiega Bellingcat). Poi il presidente ha aggiunto che “se vi è stata incuria i responsabili vanno individuati dalle nostre autorità”, escludendo dunque la proposta di Macron. E sempre ieri, come detto, anche Nasrallah ha parlato ai proseliti: differentemente dal mood classico dei suoi interventi, non ha fatto nessun attacco contro “il nemico sionista”.

Il leader del Partito di Dio ha scelto una strada più soft – come fatto da subito dall’organizzazione sciita filo-iraniana – perché probabilmente teme un’esposizione eccessiva. La scelta difensiva allora: ha detto che “non c’era nessun nostro arsenale al porto”, escludendo responsabilità di Hezbollah nella tragedia e chiedendo “un’inchiesta seria il prima possibile”. Come Aoun, anche il chierico sciita pensa a un lavoro interno. Col rischio evidente che a condurre le indagini siano le stesse autorità che per anni hanno gestito casi come quello del nitrato di ammonio che ha causato l’esplosione. Martin Chulov del Guardian, uno dei più esperti giornalisti sul Medio Oriente, ha scoperto per esempio che i fuochi d’artificio, che sembra abbiano dato il via all’incendio – infiammati da scintille durante lavori di manutenzione – e scatenato l’esplosione, erano contenuti nello stesso magazzino del nitrato confiscato nel 2013.

Tutto è restato fermo per anni e anni: quattro governi sono passati nel frattempo. Perché quelle due sostanze erano lì, insieme? Perché non erano mai state rimosse nonostante ci fossero state segnalazioni e indicazioni sulla pericolosità e necessità di smaltimento? I fuochi d’artificio erano stati confiscati nel 2010, tre anni dopo era stato spostato nell’hangar portuale 12, epicentro del disastro, il nitrato d’ammonio, fertilizzante diretto in Mozambico su una nave russa ma bloccato al porto di Beirut durante uno scalo. È un materiale civile, uno dei più comuni usati in agricoltura, ma insieme al gasolio diventa un’esplosivo facile da costruire e devastante nell’azione. Lo sanno bene i Talebani e altri gruppi terroristici: anche Hezbollah in passato ne ha fatto buon uso.

E allora, c’è la possibilità che non fosse stato smaltito per un eventuale utilizzo futuro? Nasrallah dice che la sua organizzazione è assolutamente non colpevole e aggiunge che non è vero quello che viene detto in giro sulla presenza dei suoi uomini al porto. Ma è noto che lo scalo marittimo, come quello aereo, siano gestiti dai miliziani. Non sono presenti formalmente, non con check point e mimetiche, ma Hezbollah è una mafia: striscia in borghese e costruisce posizioni e rendite. Quasi impossibile che Nasrallah o i quadri dell’organizzazione non sapessero niente di quel deposito.

Difficile fidarsi solo delle dichiarazioni, dunque. Nessuna ipotesi può essere scartata, neanche quella di chi sostiene (lo ha iniziato a fare il Jerusalem Post, ma l’informazione è uscita anche su altri media internazionali) che nel capannone esploso ci fossero anche veri e propri ordigni, forse residuati da sistemare o merce da spedire altrove. E ancora il sospetto ricade su Hezbollah. Così come quando Aoun parla di azione dall’esterno non è difficile pensare che si riferisca a Israele – che costantemente martella i traffici di armi con cui l’Iran rafforza il gruppo in Siria.

 

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