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Investire nei giovani vuol dire farlo con loro, e non su di loro. Lo spiega Floridi

Il Coronavirus ha catapultato con ancora maggior forza le nostre vite nel digitale, o il digitale nelle nostre vite. In particolare per tutto ciò che riguarda il mondo del lavoro. A questo proposito ieri l’ex presidente della Bce Mario Draghi, nel suo atteso e acclamato discorso, ha affermato che “la digitalizzazione, accelerata dalla pandemia, sarà permanente”. Di tutto questo, Formiche.net ne ha parlato con il filosofo Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford, uno dei primi in assoluto ad essersi occupato di Etica del digitale, padre di termini diventati di dominio pubblico come infosfera, quarta rivoluzione, iperstoria, onlife. Floridi è intervenuto al Meeting di Rimini nell’ambito dell’incontro “È l’onlife, bellezza. Socialità e creatività nell’era digitale”.

Professore, pensa che i cambiamenti relativi allo smart-working siano destinati a restare?

Penso proprio di sì. La grande trasformazione della pandemia è stata quella che ha portata lo smart-working a tutti, facendo diventare la presenza del digitale esperienza quotidiana. Ciò fa capire a tutta la popolazione che il digitale non è più qualcosa di opzionale, ciò che ho chiamato in passato “la ciliegina sulla torta”, di cui si può fare a meno. La trasformazione digitale è una questione di esperienza e di consapevolezza. Esperienza, perché in questi mesi tutto è passato per il digitale. Consapevolezza, perché ha fatto capire che tutto questo cambia la vita. Si tratta di un piccolo elemento positivo di una grande tragedia, anche se sono anni che tutto questo sta avvenendo. Ciò che è oggi cambiato, riguarda questi due aspetti.

Draghi ha affermato che negli Stati Uniti gli spostamenti lavorativi verso gli uffici sono già oggi il venti per cento del totale. In Italia siamo quindi molto indietro rispetto ad altri paesi?

Sì e no, dipende di quali Stati Uniti stiamo parlando. Se di quelli delle grandi traversate in automobile, o di quelli delle grandi metropoli. In generale, l’Italia non è molto più arretrata di altri paesi rispetto allo smart-working o alla flessibilità della presenza in ufficio. Credo anzi che l’Italia abbia in realtà un potenziale vantaggio: essendo un territorio molto distribuito e diversificato, in termini di paesi, paesini, cittadine, è quasi come se ci fosse un’infrastruttura già pronta. Sono perciò moderatamente ottimista rispetto alla possibilità di un’Italia molto più a rete e più distribuita, che non accentra tutto nelle grandi e solite città e che abbia maggiori capacità di essere sul territorio. Questo può avvenire, ma a patto che almeno tre condizioni fondamentali siano soddisfatte: infrastrutture, formazione, e la politica giusta.

Quindi, paradossalmente, l’implementazione di cambiamenti significativi nel mondo del lavoro, dal punto di vista della digitalizzazione, può portare anche a ricadute positive sui territori. Ricostruendo una nuova economia nella provincia italiana.

Sicuramente, proprio in termini di rivalutazione del territorio. Lì dove ci sono enormi vantaggi ambientali e di costi, si può vivere in maniera molto più comoda, economica, salutare, a dimensione umana ma a patto che tutto questo sia sostenuto dall’infrastruttura. La famiglia che va a vivere nel piccolo paesino deve avere anche la possibilità di mandare i figli a scuola, per esempio. Tutto questo non accade quindi da un giorno all’altro. C’è bisogno di servizi. Che in alcuni casi, però, sono anche più agevoli nei piccoli paesi. In sostanza, c’è bisogno dei tre elementi fondamentali indicati prima, perché ciò funzioni: infrastrutture, formazione, e politiche adeguate. C’è bisogno della rete ovunque, ma anche di servizi, e della formazione verso una cultura a progetto, che si concentri su ciò che un lavoratore fa indipendentemente dal tempo che impiega per farlo. Servono poi le strategie progettuali e gestionali che realizzino con successo questa infosfera distribuita sul territorio. Non è facile ma si può fare, con lungimiranza.

Pensa che ci sia il rischio di pensare a questo cambiamento in maniera ancora troppo rigida?

Bisogna essere flessibili, il digitale non è l’analogico fatto digitale ma ha una sua identità specifica, in termini di capacità di gestione del lavoro, per esempio. C’è una diversità di aspettative, opportunità e vincoli diversi. Ci sono aziende che vorrebbero tradurre in digitale ciò che fanno già nell’analogico. Ma questo significa non capire le opportunità del digitale. Non basta passare dall’orologio analogico a quello digitale per essere nel ventunesimo secolo. Vorrei che fosse molto chiara la percezione che il digitale non è una traduzione dell’analogico, ma l’altra parte del binario. Altrimenti, se tutto quello che fa il digitale è rendere la vita ancora più complicata, allora siamo messi peggio di prima. Il rischio è di non trarre vantaggio dal digitale e raddoppiare il peso di ciò che l’analogico già aveva. Insopportabile. Con una battuta, a chi mi chiede che cosa sia meglio, l’analogico o il digitale, rispondo: “fragola E limone” entrambi, come nel gelato. I due “gusti” non sono solo compatibili, si migliorano a vicenda.

Draghi ha affermato che le leve fondamentali per costruire il futuro saranno istruzione, formazione, innovazione, ricerca. Quello della didattica digitale è però un tema molto caldo in Italia, che investe molti aspetti della vita quotidiana. La conciliazione lavoro-famiglia, la parità di genere, il bisogno di socialità per i ragazzi.

L’enfasi sui giovani è una cosa giustissima ma anche scontata. Se formazione, educazione e istruzione vuol dire costruire competenze, e al contempo formare cittadini e cittadine che sanno quello che fanno, sono informati e informate e sanno scegliere, riuscire a trarre i punti di forza del digitale diventa una questione centrale. Fare didattica online non può voler dire fare la stessa lezione, ma davanti alla telecamera. Perché in quel caso non si ha il valore della classe reale e non si sfrutta quello della classe digitale. In quel caso rischiamo di rovinare sia l’una sia l’altra. Si riduce il digitale a una videocassetta VHS degli anni ottanta.

Quali saranno le giuste decisioni da prendere in questo settore?

Rispetto al discorso di Draghi, innesterei l’esigenza di cogliere quali sono i vantaggi fondamentali del digitale nell’istruzione, nella formazione, nella costruzione dei cittadini e delle cittadine del domani. Se potessimo fare usare alle ragazze e ai ragazzi in maniera didattica la stessa modalità interattiva e multimediale delle piattaforme sociali, per esempio, capiremmo che funziona molto meglio di quella frontale con la telecamera. Ovvero di una modalità che al quindicenne di oggi appare come se fosse degli anni ottanta. Ma se trasformiamo il digitale in una tecnologia degli anni ottanta abbiamo fortemente perso un’opportunità. Investire nei giovani oggi, quindi, vuol dire investire con loro, e non solo su di loro. Bisogna partecipare nella costruzione di un linguaggio comune, e facilitarne l’adozione.

L’Italia si è probabilmente trovata molto impreparata di fronte all’emergenza. Però forse ora, nella scuola, ci sarebbe bisogno di investire in maniera decisa in strumenti adeguati ad esempio alla didattica a distanza.

Sì, e poi bisogna insegnare agli insegnanti come si fa la didattica online e digitale. Ci sono decenni di ricerche e studi su questi temi. Bisogna formare i formatori, e con un investimento “keynesiano” (ride, ndr), grazie al quale dare lavoro a molte persone. Mentre invece rischiamo di adottare la soluzione più semplice e meno utile: comprare cose e servizi (computer, tablets, abbonamenti etc.) che nessuno sa o vuole usare bene. Bisogna invece gestire i fondi insieme a chi ha il senso delle problematiche, pensando a modelli flessibili, nati dal basso, che permettono di interloquire direttamente con chi ha necessità di affrontare i problemi. Le soluzioni avranno successo solo se si coinvolgono i “problem owners”, chi i problemi li vive tutti i giorni.

Pensa che il distanziamento sociale, l’isolamento, la quarantena, siano tutti eventi che ci aiutano a ripensare ma anche a rimettere al centro il valore della socialità, delle relazioni umane, dello stare veramente in compagnia?

Noi apprezziamo le cose non tanto quando la abbiamo ma quando le abbiamo perdute e riacquistate. Siamo contenti di non avere il mal di denti solo dopo averlo avuto. Sulla nostra capacità di vivere insieme e socializzare, vale quello che diceva Aristotele. L’essere umano è un animale politico, socializzante, che trova nell’altro il riscontro dei propri significati, e che li vuole condividere. La pandemia nessuno se la augura, ma ci ha fatto capire quant’è bello stare insieme. Ci ha dato una consapevolezza triplice: nei confronti del passato, di quello che poteva fare; del presente, di quello che vorremmo poter fare; e infine nei confronti del futuro, di quello che possiamo fare quando lo facciamo insieme.

Una presa di coscienza non scontata…

La pandemia ci ha fatto vedere, e capire, che non si può vivere ognuno per conto proprio, perché la pandemia tocca tutti. Quindi ci fa capire che ci sono soluzioni che sono necessariamente sociali, comunitarie, dentro una cultura che fino all’altro ieri era assolutamente individualista. Abbiamo capito quanto possiamo fare quando lo facciamo insieme. Quando Draghi parla di speranza, dovremmo anche chiederci: speranza in che cosa? La speranza è come una bottiglia: che cosa ci mettiamo dentro? Non dobbiamo puntare solo sulla bottiglia, ma capire che cosa vogliamo metterci dentro. È il riempimento di quella speranza che può fare la differenza. La solidarietà, la giustizia, un mondo sano e una società vivibile, pari opportunità e meritocrazia, la protezione e l’irrobustimento dei diritti umani: questi sono i contenuti della bottiglia. È in questo che dobbiamo sperare, per realizzare poi la speranza, con intelligenza e tenacia.

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