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Ecco cosa chiede la Tunisia all’Italia. Parla Majdi Karbai (Attayar)

“I giovai tunisini cercano un futuro”, dice a Formiche.net Majdi Karbai, deputato tunisino trentasettenne eletto alle ultime politiche del 2019 con la Corrente democratica (Attayar). Vive in Italia dal 2009, dove lavora per Save The Children. Ha studiato Cinema e Arte multimediale all’Università di Roma 3, poi ha vissuto a Parigi e in Belgio attraverso una borsa di studio europeo, per poi tornare in Italia a discutere la tesi. “Parlo per esperienza diretta, perché io stesso ho cercato un finanziamento con cui portare avanti un progetto nella mia regione (un’area rurale), ma ho trovato mille ostacoli e non sono mai arrivato a ottenere il prestito che mi sarebbe servito per l’investimento iniziale. Invece vogliamo questo: poter portare avanti i nostri progetti, i nostri sogni”, dice Karbai.

La Tunisia è stata per lungo tempo descritta come l’unico successo effettivo delle Primavere Arabe. Il sistema creato da quella stagione storica a Tunisi ha retto per anni, ma ora sembra di trovarci davanti a una situazione complicata e delicatissima. Cosa ha portato a questo?

Ho vissuto la Primavera come tutti giovani tunisini che hanno sognato un cambiamento di 180 gradi. Ma ci sono delle condizioni geopolitiche che hanno contratto questo cambiamento: la guerra in Libia, la crisi economica che dal 2011 morde il mio paese. E poi la volontà delle forze interne in Tunisia di cambiare realmente la situazione economica sociale e politica. Quello che si aspettano i giovani, un posto di lavoro e una vita futuribile, non è ancora stato attuato dalla politica tunisina. Siamo ancora in una fase di transizione, con tutto il travaglio che questo comporta.

Un percorso ancora lungo, insomma. Prospettive?

Come diceva Gramsci: sono sospeso tra il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà. Possiamo dire comunque che non ci sono state le condizioni, certo: gli alti e bassi sono stati continui. Ma la politica da noi è ancora molto conflittuale e manca quel compromesso che possa salvare realmente il paese. Però guardo a sbocchi positivi: la Primavera Araba ha portato nuovi valori in Tunisia, come le libertà e l’inclusione di queste nella costituzione, dunque dal punto di vista legislativo siamo pronti e garantiti. Il problema è che non riusciamo ad avere altrettante garanzie sul quadro delle politiche economiche.

Ieri i ministro di Esteri e Interni italiani erano in Tunisia, una doppia presenza – che segue contatti precedenti, intensificati nelle ultime settimane – che probabilmente ha un valore duplice. Se da una parte c’è il controllo dell’immigrazione, esigenza di sicurezza nazionale, attraverso il Viminale, la Farnesina guarda al dossier in ottica più allargata: il rischio destabilizzazione regionale se la crisi tunisina si saldasse a quella libica (un’esigenza che in questo caso diventa un chiaro interesse nazionale italiano riguardo l’altra sponda).

La Libia quando era stabile offriva 200mila posti di lavoro per i tunisini. Il caos ha distrutto un mondo. Immaginiamoci gli italiani che lavorano in Svizzera e una Svizzera destabilizzata: tutte quelle persone che hanno perso lavoro, famiglie senza stipendi. È una questione che assume dimensioni sociali: duecentomila persone su undici milioni di abitanti non sono poche.

Cosa può fare Roma?

Non possiamo oggi trattare la questione migratoria solo come una questione di sicurezza. Questo è certo. Ora dobbiamo aver un altro approccio: sociale, economico e anche politico. È vero che l’Italia e l’Europa stanno portando avanti contatti in Tunisia, che si sono anche concretizzati in un primo aiuto da dieci milioni di euro per formare la Guida Costiera tunisina, però questo non basta.

Perché “non basta”?

Perché le rotte sono tante e non possiamo solo mettere un tappo ai flussi migratori. Per spiegarmi, ci sono mille tunisini bloccati a Melilla, poi c’è la rotta dalla Turchia e via dicendo. Dobbiamo dunque pensare a un approccio socio-economico: forse sì, dobbiamo pensare a un Piano Marshall per la Tunisia, come si diceva tempo fa. Ma si devono creare tavoli ed essere pronti ad ascoltarci. Ci sono per esempio persone come me, deputati che rappresentano la diaspora, che non vengono chiamate a parlare della situazione quando invece siamo piuttosto informati anche su dettagli precisi. Purtroppo vediamo un approccio emergenziale, e non qualcosa di più ampio e più profondo.

Che cosa l’Europa non sta capendo della Tunisia e/o del Nordafrica in generale?

Serve un approccio Euro-mediterraneo. Serve spirito di cooperazione. Torniamo un attimo alla Libia: ci ricordiamo che la Tunisia non era stata invitata alla Conferenza di Berlino, ossia alla più importante iniziativa europea per cercare di stabilizzare la guerra civile? Come è possibile dimenticarsi di un paese confinante?

È quella questione dell’approccio di cui si parlava sopra. E nello specifico della Tunisia?

Il mio paese non è più quello del 2011. I giovani, la metà della popolazione tunisina, sono cambiati. Lo spirito è cambiato: le persone hanno bisogno di cambiare e di viaggiare, hanno bisogno di cercare altre opportunità. Sono stanche di essere chiuse, per certi versi oppresse, in un paese piccolo. Siamo come l’Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, quando c’è stata un’ondata di immigrazione italiana che ha prodotto una ricchezza in giro del mondo. E poi quegli immigrati in molti casi sono tornati e hanno contribuito allo sviluppo economico e sociale, creando prosperità e ricchezza. Ed è questo noi cerchiamo in Tunisia. L’Ue invece di inviare soldi per la sicurezza dovrebbe aiutare quei giovani che girano per i paesi europei a poter investire nel loro paese.

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