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Libano, quale futuro dopo il caos? L’analisi di Matteo Bressan

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Il verdetto del Tribunale Speciale per il Libano, con la condanna in contumacia di Salim Ayyash, riporta le lancette della politica libanese al febbraio del 2005. Le responsabilità di Salim Ayyash, un operativo di medio livello all’interno degli Hezbollah, sostanzialmente non aggiungono molto alla frattura già esistente sull’omicidio dell’ex Premier Rafiq Hariri.  È bene ricordare che la questione della presenza militare siriana nel Libano terminata, sotto la spinta delle proteste, pochi mesi dopo l’omicidio Hariri, frammentò in due blocchi l’opinione pubblica libanese.

Per quell’elettorato che dal 2005 ha sostenuto la coalizione del 14 marzo, il Tribunale era lo strumento per accertare le responsabilità della Siria e degli Hezbollah nell’omicidio Hariri. Per coloro che hanno sostenuto la coalizione dell’8 marzo, invece, il Tribunale era lo strumento per delegittimare la “resistenza libanese”. In quegli anni e subito dopo la guerra dei 34 giorni tra Hezbollah e Israele, aspro era il dibattito sulla necessità di disarmo del Partito di Dio. La polarizzazione dell’opinione pubblica libanese sulla resistenza armata di Hezbollah e sulla al-Muqāwama uscirono in parte dall’agenda della politica, contestualmente alle prime proteste del marzo del 2011 in Siria.

La Siria rappresentò l’ennesimo spartiacque del paese dei cedri che, di lì a poco, ne venne investito in termini di ricadute geopolitiche ed umanitarie attraverso circa due milioni di profughi siriani. Oggi, nel bel mezzo della crisi economica e politica del Libano e alla luce dell’esasperazione per quanto accaduto lo scorso 4 agosto con l’esplosione dell’hangar 12 del porto di Beirut, la sentenza del Tribunale Speciale per il Libano si presta a molteplici letture.  Se per il Ministero degli esteri israeliano e saudita la sentenza conferma il ruolo degli Hezbollah nell’assassinio di Rafiq Hariri e nell’avere intralciato le indagini, sul fronte politico libanese, la sentenza ha registrato alcune reazioni. Essa è stata accolta con un appello all’unità nazionale da parte di Aoun, il quale ha dichiarato che fare “giustizia sull’omicidio Hariri risponde al desiderio di tutti di chiarire le circostanze di questo crimine atroce che ha minacciato la stabilità e la pace del Libano”.

Saad Hariri, invece, ha accettato il verdetto del Tribunale Speciale sostenendo che “il partito che dovrà fare sacrifici è Hezbollah” e che la sua famiglia sarà in pace solo quando sarà stata applicata la punizione. La questione che si pone in queste ore, in cui la Corte ha negato espressamente l’esistenza di “prove di qualsiasi coinvolgimento della leadership di Hezbollah, oltre a negare l’esistenza di “prove dirette di un coinvolgimento siriano” è come il verdetto del Tribunale Internazionale potrebbe incidere sulla crisi libanese. Ad oggi, le due opzioni più accreditate sono un esecutivo veramente tecnico che traghetti il paese alle elezioni oppure il consolidato schema di governo di unità nazionale con dentro le forze dell’attuale maggioranza parlamentare.

La prima opzione potrebbe trovare il favore dei manifestanti i quali, tuttavia, in caso di elezioni non avrebbero, ad oggi, un contenitore politico dove riversare la protesta di piazza. La seconda opzione rischierebbe di riproporre lo schema politico di fatto accusato di aver portato il Libano sul baratro della crisi economica. Secondo alcune ricostruzioni di queste ore, lo stesso Hariri, dimessosi lo scorso ottobre, potrebbe rientrare nella rosa dei possibili premier di un governo che traghetti il paese a nuove elezioni. Un’ipotesi considerata tuttavia da molti irrealistica, visto che lo stesso Hariri fu il bersaglio delle proteste dello scorso autunno e che venne considerato, dagli stessi sauditi, eccessivamente accomodante proprio con gli Hezbollah, suoi alleati di governo. La formazione del nuovo esecutivo si incrocia però con un’altra questione sollevata dal Presidente Aoun, alleato degli Hezbollah e di Amal, l’altro movimento sciita guidato da Nabih Berri.

Il presidente Aoun, in un’intervista sul canale televisivo francese BFM TV, rispondendo all’ipotesi di una pace con Israele ha affermato “Dipende. Abbiamo problemi con Israele, dobbiamo prima risolverli”. L’affermazione, in parte anche distorta su alcuni media, è avvenuta in seguito allo storico annuncio di ripresa delle relazioni tra Israele ed Emirati Arabi Uniti. Un accordo, mediato dall’amministrazione Trump, che punta ad un riequilibrio dei rapporti di forza nella regione in chiave di contenimento iraniano. È indicativo che, tornando sull’argomento, in un’intervista al Corriere della Sera a cura di Lorenzo Cremonesi, Aoun abbia indicato i problemi che, ad oggi, ostacolerebbero una pace con Israele: la delimitazione delle frontiere marittime (funzionale allo sfruttamento delle risorse energetiche), di quelle terrestri e il ritorno dei palestinesi ancora presenti in territorio libanese.

Sebbene molti critici ritengano le affermazioni di Aoun funzionali a distogliere l’attenzione interna e a guadagnar tempo nella gestione della crisi politica, non si può non notare che le questioni indicate dal Presidente Aoun non coincidono, del tutto, con l’agenda e le rivendicazioni storiche degli Hezbollah. È forse per questo motivo che, tra gli scenari su cui si ragiona in alcuni ambienti libanesi in questi giorni, vi è anche un possibile accordo tra il Libano e Israele sulla delimitazione delle frontiere marittime e sulle installazioni che, secondo Netanyahu, fabbricherebbero in Libano missili balistici per gli Hezbollah. Sul tema il Premier israeliano era intervenuto già due anni fa e aveva condiviso le sue preoccupazioni con il Presidente Vladimir Putin.

Secondo questo scenario, Hezbollah riuscirebbe a preservare la sua componente politico parlamentare e anche il suo armamento leggero, ma andrebbe a perdere la capacità di produrre missili balistici, considerati sia dagli Stati Uniti che da Israele una vera e propria linea rossa. Una parziale distensione tra Libano e Israele potrebbe rappresentare una svolta epocale con ricadute regionali, perché inevitabilmente il paese dei cedri si ritroverebbe ad essere l’epicentro di una nuova ed inedita fase di dialogo. Uno scenario che potrebbe anche restare, per le molteplici criticità, un mero esercizio analitico ma che, nell’ora più caotica della recente storia del Libano, potrebbe fornire una via di uscita a molti attori. 

 


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