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Dopo l’esplosione, la tempesta (politica). Il bivio del Libano

In uno dei tanti video che escono da Beirut, si vedono i fuochi d’artificio scoppiare. Macabro e sarcastico anticipo qualche secondo prima dell’enorme esplosione che ha devastato la città. Su queste colonne Riccardo Cristiano, che quel Paese lo conosce bene, ha parlato di “11 settembre libanese”: è il senso dell’accaduto. Mentre ci si affanna a cercare i responsabili — tra i pareri discordanti di esperti che per ora valutano immagini sulla base di pre-conoscenze storico-geopolitiche — arriva la questione cruciale. Come se in Medio Oriente l’incidente non fosse contemplato, il punto non sembra tanto il chi (sia stato) ma il cosa verrà dopo e semmai il come ci si è arrivati — elementi necessari per il futuro di un Paese che si specchia sulle rovine del porto della capitale e deve essere aiutato a riemerger dalle macerie.

Il Libano uscito solo di recente da una sanguinosa guerra civile, da anni subisce — come nessun altro e in forma nemmeno troppo indiretta — gli effetti dell’enorme destabilizzazione regionale prodotta dal conflitto siriano. Ospita per esempio un numero di rifugiati gigantesco rispetto alla popolazione: sono circa un milione, su quattro milioni e mezzo di abitanti. Un sistema politico altamente penetrabile da dinamiche e interessi esterni, incapace di gestire le sfide statuali anche per volontà altrui, si confronta da tempo con la pressione che la sommatoria di instabilità politica-istituzionale, corruzione endemica, crisi geopolitica e immigrazione creano sul sistema economico e sociale. La debacle finanziaria libanese da mesi è considerata il nuovo bubbone che avrebbe fatto esplodere la regione — si sta portando dietro già la Siria — e la tenuta sociale davanti a cittadini letteralmente affamati era andata in smottamento da tempo. Chi protesta ha trovato l’opposizione delle élite, in vita grazie al sostentamento esterno da Golfo e Repubblica islamica, arricchite in potere e rendite dal power-sharing tra le comunità che però non produce (più?) valore utile alla collettività.

Lo Stato come bene comune è diventato vittima della politica, o meglio delle rendite che la politica permette. La classe media, vera ricchezza storica del Paese, si è ristretta. L’evoluzione culturale si è bloccata. L’esplosione del 4 agosto diventa un’immagine iconografica di come quella politica si sia dimenticata degli interessi dei cittadini. Quell’enorme quantitativo (quasi tremila tonnellate) di nitrato di ammonio era fermo da anni e incustodito nel magazzino esploso. Sequestrato nel 2013 da una nave russa chiacchierata, era stato depositato senza eccessivi controlli (oppure chi controllava il porto pensava di usare quel materiale con altri scopi? Possibile pensarlo, impossibile saperlo). Sebbene ci fossero state segnalazioni sulla sua pericolosità, lo smaltimento era stato rimandato. “Alla luce del grave pericolo rappresentato dalla conservazione di questo carico nel magazzino in un clima teso, ripetiamo la nostra richiesta all’agenzia marittima di spostare immediatamente il materiale”, scrisse nel maggio del 2016 il capo dell’agenzia doganale libanese.

Burocrazia, disinteresse o interessi clandestini. “Le autorità libanesi trattarono quel carico come hanno trattato la mancanza di elettricità del Paese, l’acqua corrente non potabile e il problema della troppa spazzatura: litigando e sperando che il problema si risolvesse da solo” scrive, da Beirut, Ben Hubbard del New York Times, in un pezzo in cui spiega come (appunto) “mentre i residenti raccoglievano i rottami, molti hanno visto l’esplosione come il culmine di anni di cattiva gestione e abbandono da parte dei leader politici del Libano”.

“Il dilemma che in questo momento l’intera Comunità internazionale si trova davanti è questo:  una classe politica che non si è dimostrata capace di gestire il Paese potrebbe essere salvata da un evento tragico, costato la vita a decine di persone e la distruzione di una città, che ha dimostrato in modo parossistico quell’inettitudine della classe dirigente libanese”, spiega un analista esperto dell’area che per ragioni professionali preferisce l’anonimato. È il punto d’altronde messo in chiaro da un articolo della Bloomberg destinato a segnare il passo in un momento in cui i governi di tutto il mondo vogliono aiutare i libanesi, ma la politica nel Paese è un ostacolo profondo. Vedere la visita odierna del presidente francese, Emmanuel Macron, e il rinnovato interessamento, forzato, dell’Ue — confermato anche oggi nella telefonata tra il premier italiano, Giuseppe Conte, e l’omologo libanese, Hassan Diab — o il Fondo monetario che adesso dovrà accordare aiuti per salvare il paese dall’implosione. “Come aiutare un popolo colpito senza dare potere ai suoi loschi e sinistri governanti?”, scrive Bloomberg.


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