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Beirut esplode, il Libano implode. L’analisi di Bressan

Un particolare non da poco, il colore rossastro della nube esplosiva, conferma le dichiarazioni ufficiali: è stato nitrato di ammonio a essere saltato in aria nel porto di Beirut. Ieri, tardo pomeriggio, la capitale del Libano è stata dilaniata da un’esplosione clamorosa. L’hanno sentita fino a Cipro. I detriti hanno reso lo scalo portuale inutilizzabile; l’onda d’urto ha spaccato porte e vetri di case a centinaia di chilometri di distanza; la nube tossica e il particolato nell’aria ha portato le autorità a dichiarare lo stato di emergenza per due settimane. Come Texas City e Halifax in passato, la deflagrazione resterà nella storia. Ci sono diverse decine di vittime (forse più di cinquanta) e oltre duemila feriti: molte persone sono state colpite lievemente dalle schegge dei vetri infranti, altre più gravi schiacciate dai detriti. Gli ospedali, già in condizioni critiche per la gestione del Covid, sono andati in tilt. Alcuni sono stati danneggiati dalla deflagrazione e non hanno ricevuto i malati meno gravi (col rischio che le mancate cure producano aggravamenti).

Oltre ai fatti, ben poco: ossia non ci sono ancora ricostruzioni su cosa sia successo. Pare, secondo le autorità, che sia saltato in aria un hangar in cui da qualche anno era stoccato un quantitativo enorme di nitrato di ammonio — che di solito è usato come fertilizzante ma è altamente esplosivo — recuperato da una nave in avaria. Un incendio si sarebbe propagato da un deposito di fuochi di artificio limitrofo, poi è arrivato al magazzino contenente il nitrato. Ma è il Libano, Paese che da sempre vive sul filo della tragedia e dunque i sospetti dietro alla causa accidentale sono svariati. “La storia del Libano, dai tempi della guerra civile (1975-1990) sino ad oggi, è segnata e spesso scandita da esplosioni, nuvole bianche, nere e ieri rossastre che si alzano in cielo”, commenta con Formiche.net Matteo Bressan, docente di Relazioni internazionali e studi strategici alla Lumsa e analista Nato Foundation.

Fu così d’altronde per Bashir Gemayel il 14 settembre del 1982, per il contingente statunitense e francese della Forza Multinazionale il 23 ottobre 1983 e, in tempi più recenti, per Rafiq Hariri il 14 febbraio del 2005 e per il quartiere di Bourj al Barajneh, l’11 novembre del 2015: “Ad ogni esplosione, ad ogni devastazione sono seguiti miserie, vendette e drammi che hanno investito ora un gruppo ora un altro, oppure hanno avuto ripercussioni dirette tanto in Israele quanto in Siria. Ogni esplosione ha la sua narrazione, la sua memoria i suoi colpevoli, presunti o reali che siano”, aggiunge Bressan.

Martedì, si è pensato subito a Hezbollah: il partito/milizia sciita collegato all’Iran ha lunghi trascorsi terroristici; è responsabile di dozzine di attentati, vive un momento molto delicato. È fortissimo come uno-Stato-nello-Stato, più simile a una mafia, ma le condizioni economiche del Paese sono atroci. È pressato, potrebbe aver colpito i rivali, o inscenato l’attacco per distogliere l’attenzione dalla situazione. L’accusa avrebbe potuto rimbalzare contro Israele, che già in Siria colpisce costantemente i depositi militari che fanno da logistica per i rinforzi che il gruppo riceve dai Pasdaran. Sia Hezbollah che Gerusalemme però hanno dichiarato estraneità: non sono stati gli israeliani, hanno detto subito i libanesi in un’evidente slancio per abbassare preventivamente i toni; non era un deposito di armi hanno dichiarato fonti dell’Idf alla Tv israeliana.

“L’accertamento della verità – continua Bressan – in un Paese dilaniato dalla crisi economica, ormai prossimo al fallimento, privo di energia elettrica, carburante e pezzi di ricambio per i generatori rischia di diventare l’ennesimo sterile esercizio di una classe politica prossima al baratro. Depositi bancari, stipendi, pensioni stanno di fatto evaporando e, tuttavia, la rassegnazione sembra aver preso il sopravvento anche sulla protesta. Quanto accaduto ieri, al di là della ricostruzione dei fatti e ai numeri definitivi delle vittime e dei feriti, mette ancora di più il Libano in ginocchio, privandolo di fatto della fruibilità dello scalo portuale”.

Il Libano è in una fase di implosione incontrollata che i libanesi sentono più pesante della guerra civile di decenni fa. E l’incidente di ieri rischia di peggiorare, tutto in un colpo, la situazione: la zona dell’esplosione è quella del terminal in cui arriva il grano russo che copre il fabbisogno dell’intero Paese. Il porto è stato chiuso completamente, e nel Paese potrebbero non arrivare nemmeno le materie prime energetiche che servono per alimentare le centrali elettriche. Non solo.

“Le ipotesi su quello che è successo – aggiunge Bressan – si intrecciano in queste ore con altre considerazioni che gravano sul Libano. Sebbene al momento non vi siano elementi per dimostrare che in quel deposito o nelle immediate vicinanze vi fossero strutture degli Hezbollah tali da avvalorare l’ipotesi di un’azione israeliana, il livello di tensione è sufficientemente alto da facilitare una contrapposizione di velate e reciproche accuse che ben si innesterebbero nel confronto geopolitico che vede fronteggiarsi, in modo sempre più evidente, Israele e Iran”.

Al quadro regionale, inoltre si potrebbe andare a sommare un altro elemento in grado di incidere sulla già precaria e residuale tenuta del sistema politico libanese: il verdetto, sull’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri. “Esattamente. Il Tribunale speciale per il Libano emetterà il prossimo 7 agosto e quattro esponenti di Hezbollah sono i principali indiziati. Sullo sfondo, le accuse rivolte sempre al Partito di Dio di esercitare un controllo, tramite esponenti di fiducia, dello scalo portuale e dell’aeroporto e che, alla luce delle esplosioni di ieri, vengono messe in relazione alle richieste formulate dal Fondo Monetario Internazionale di riformare, aprendo a compagnie private, la gestione di queste infrastrutture vitali per il Paese”, chiude Bressan.

(Foto: Alessandro Balduzzi)

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