Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

La macchina delle riforme gira a vuoto. Il caso degli enti locali raccontato da Balducci

I problemi causati dal Covid-19 e i collegati dibattiti sul ricovery fund e sul Mes hanno distolto l’attenzione sul fatto che una serie di processi di riforma su temi rilevanti per la collettività stanno andando avanti. L’unico argomento di riforma su cui l’attenzione non si è distratta è quello della riforma della giustizia. Presso che ignorato è il tema della riforma delle autonomie locali. Alla Camera è in esame (commissioni I e V) una proposta di legge (A.C. 1356). Il 6 luglio 2020 si è insediato al Ministero dell’Interno il gruppo di studio per la modifica dell’ordinamento degli enti locali per la elaborazione di un disegno di legge ad hoc da presentare entro il 31/12 di quest’anno.

Se il buongiorno si vede dal mattino, queste iniziative non sembrano preludere al salto di qualità necessario: il disegno di legge presentato alla Camera assomiglia molto ad un “decreto mille proroghe” con una serie di interventi di dettaglio che non intaccano i problemi di fondo del nostro governo locale; il decreto di nomina del gruppo di lavoro non dà indicazioni soddisfacenti per orientare i lavori del gruppo di lavoro. Vista la situazione credo valga la pena fare il punto per tentare di capire quali sono i nodi decisionali da sciogliere.

L’attuale assetto delle nostre autonomie va fatto risalire alla legge 142 del 1990. Tale legge fu il frutto di una intensa attività dell’allora ministro degli Interno Oscar Luigi Scalfaro che si prodigò, prima affinché l’Italia ratificasse la Carta Europea dell’Autonomia Locale (legge 439 del 1989) e, susseguentemente, per la messa in conformità della legislazione italiana con gli standards di tale Carta. Tale sforzo rappresentava la necessità di adeguare le istituzioni all’evoluzione dei compiti dello stato. Si era passati nel secondo dopoguerra da uno stato regolatore (chiamato a garantire fondamentalmente la legalità) ad uno stato di tipo funzionale (chiamato, oltre a garantire la legalità, a fornire servizi e a gestire infrastrutture). Questa evoluzione dei compiti statali aveva portato in tutto il mondo occidentale e, quindi anche in Europa, ad una esplosione delle competenze degli enti locali. La Carta Europea delle Autonomie locali (trattato internazionale promosso dal Consiglio d’Europa) è il risultato dello sforzo concettuale della cultura istituzionale europea di adeguare l’equilibrio istituzionale a queste mutate condizioni. Nella complessità determinata dalla nova situazione, l’identità statale non può più essere garantita dall’accentramento istituzionale ma ha bisogno di un equilibrio basato sulla flessibilità.

Alla l. 142/90 fanno seguito una serie di successivi aggiustamenti. Da segnalare in maniera particolare la così detta riforma Giuncato (il dirigente del Ministero dell’Interno che la promosse) della contabilità degli enti locali (il Dlgs 77 del 1995) con cui si introdusse una contabilità per missioni, anticipando di un quindicennio il Dlgs 118/2011, a riprova del fatto che la maggior parte dei servizi vengono erogati dagli enti locali e del fatto che oramai l’elemento trainante dell’azione pubblica non è più lo stato centrale ma il governo locale. Da segnalare anche l’elezione diretta del Sindaco (legge n. 81 del 1993). L’ultimo sviluppo della l. 142/1990 è il Dlgs 267 del 2000, il testo unico degli enti locali in cui sostanzialmente la 1. 142/90, la l. 81/93 e il Dlgs 77/95 vengono armonizzati.

Questi pesanti interventi istituzionali  – sostanzialmente tutti ispirati ai principi della Carta Europea dell’Autonomia Locale – non riescono ad adeguare tutti gli snodi consolidatesi nei lunghi decenni dell’accentramento e dello Stato Regolatore. Questi nodi si sono venuti incancrenendo. Qui di seguito li passeremo rapidamente in rassegna perché è su di essi che si dovrebbe concentrare l’azione riformatrice. Essi sono tre: (i) la necessità di adeguare la governance a seguito dell’introduzione dell’elezione diretta del Sindaco; (ii) l’intreccio dei problemi riconducibili al ruolo del segretario comunale e al connesso problema della formazione dei vertici amministrati degli enti locali; (iii) la dimensione del comune Qui di seguito passeremo molto rapidamente in rassegna questi temi.

LA GOVERNANCE

L’elezione diretta del Sindaco avrebbe dovuto avere come immediata conseguenza l’abolizione della giunta. Un regime presidenziale come quello incardinato nell’elezione diretta del Sindaco non tollera la sopravvivenza di un istituto di tipo “parlamentare” quale è la Giunta, per di più concepito non tanto come un vero e proprio “esecutivo” quanto come uno strumento elitario che decideva (con i poteri del Consiglio) durante le pause (lunghe) dei lavori del Consiglio.

IL RUOLO DEL SEGRETARIO COMUNALE E LA FORMAZIONE DEI VERTIVI AMMINISTRATIVI 

La messa in conformità della normativa italiana con i principi della Carta Europea delle Autonomie Locali ha presto imposto la revisione del ruolo del segretario comunale, originariamente funzionario prefettizio chiamato, anche ora, a dare un parere di legalità sulle proposte di delibera della Giunta e del Consiglio. Abortito il tentativo (la Agenzia dei Segretari) di far funzionare un ente bilaterale sul modello del Centro Nazionale della Funzione Pubblica Territoriale (CNFPT) francese, ora il segretario Comunale è una specie di personaggio in cerca d’autore. Da una parte è definito dalla così detta Bassanini 2 (l. 127 del 1997) come il “consulente del Sindaco” ma, sul versante opposto, è chiamato a dare un parere di legittimità sulle proposte di delibera e funge da organo investigatore per la procura della Corte dei Conti Regionale (in nome della quale comunica agli amministratori l’avvio dei procedimenti). Il Segretario Comunale potrebbe essere definito come il “notaio del Comune”, figura coerente con uno Stato regolatore chiamato a garantire la legalità. La figura del Segretario si è presto trovata in contrapposizione con quella del Direttore Generale, figura sviluppatasi spontaneamente come risposta ai bisogni di managerialità di un ente che oramai è il più grande datore di lavoro del proprio territorio e il maggior fornitore di servizi del proprio territorio. La figura del Segretario è rimasta solo in Italia. In Germania lo Stadtdirektor e nel mondo anglosassone il Ceo (che negli Usa diventa City Manager) non si sono mai visti contrapposti una figura di tipo notarile come il nostro Segretario. In Francia, paese da cui la abbiamo importata, la figura del Segretario oramai è stata assorbita in quella del Direttore Generale. Da ultimo va notato che in Italia il Segretario nasce già come tale, residuo di una situazione in cui i compiti dei Comuni erano molto limitati. Altrove non si nasce titolari della posizione apicale ma si diventa segretario/direttore dopo aver percorso tutte le posizioni cruciali dell’amministrazione comunale (finanze, risorse umane, urbanistica, servizi). Nei sistemi più avanzati queste figure vengono reclutate attraverso un sistema che accoppia selezione e formazione.

L’aumentata responsabilità dei comuni nella erogazione dei servizi ha fatto emergere la questione dell’adeguatezza dimensionale dei nostri comuni. Non va dimenticato che il 75% dei nostri ca. 8.000 comuni hanno meno di 5.000 abitanti. Con il DL 78 del 2010 (trasformato nella legge 122/2010) si dà l’avvio ad un complicatissimo processo per spingere i comuni sotto i 5.000 abitanti ad associarsi e, ancor meglio, a fondersi. La sentenza della Corte Costituzionale n. 33 del 2019 (che fa espresso riferimento alla Carta Europea dell’Autonomia Locale) stoppa questa pretesa. Qui vanno fatte alcune considerazioni. Innanzi tutto va notato che la dimensione media dei comuni italiani (più di 8.000 abitanti) è la maggiore in Europa. Va poi evidenziato che le economie di scala non si ottengono semplicemente aumentando automaticamente le dimensioni dell’ente ma anche e soprattutto cambiando i modelli di organizzazione del lavoro. Qui un riferimento comparato può essere di grande aiuto al legislatore. In Francia ci sono ca. 34.000 comuni. Anche in Francia la questione della dimensione è risentita ma non si è mai pensato di abolire i piccoli comuni considerati elemento insostituibile di democrazia e di aggancio dei cittadini alle istituzioni pubbliche. In Francia si è trovata la soluzione nella istituzione delle “comunità urbane”, enti intermedi tra il comune e la Provincia cui fa capo l’erogazione dei servizi di natura tecnica. In Francia, in buona sostanza, si è adottato il modello tedesco di scissione della Prefetture (strumento del controllo statale sul territorio e sugli enti locali) dai Landeskreise, enti più piccoli delle prefetture cui i piccoli comuni devono obbligatoriamente demandare la fornitura dei servizi tecnici. La creazione delle “comunità urbane” ha portato in Francia alla riduzione degli enti partecipati dai comuni (syndacats des comunes, cioè a dire consorzi, società partecipate ecc.) da ca. 20.000 a poco più di 10.000 in pochi anni. In Germania non si supera il numero di 1.000 enti partecipati. In questo modo, tra l’altro, gli enti che esternalizzano la production del servizio sono in grado di mantenerne il controllo e di rispondere della delivery del servizio ai cittadini. La questione dimensionale qui si incrocia con la così detta riforma delle province. Un discorso a parte, da questo punto di vista, richiede il tema della città metropolitana che, se correttamente interpretata, non va confusa con la comunità urbana o la provincia ma va capita come strumento di coordinamento delle conurbazioni.

Il bisogno di riforma, nel settore del governo locale come in quello della giustizia e della pubblica amministrazione è percepito. Ma manca chiaramente la capacità di uscire dagli schemi esistenti per concepire modelli istituzionali più adeguati alla complessità del mondo moderno.

×

Iscriviti alla newsletter