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Non solo Macron, Pellicciari spiega chi (non) vuole aiutare il Libano

Nella scena finale del cult-movie Matrix, il protagonista Neo decifra la realtà (virtuale) e inizia a vedere oggetti e persone che lo circondano de-frammentati in strisce alfa-numeriche.

È simile a quanto avviene al ricercatore che ha passato anni ad occuparsi di uno specifico argomento e finisce col vederlo dappertutto per poi filtrare con processo induttivo ogni aspetto del “generale” attraverso la lente del “particolare” che gli è tanto (forse troppo) cara.

Per chi studia gli aiuti internazionali tra Stati, il 2020 sarà anno bisestile difficile da dimenticare per quanto registrato durante la Fase 1 del Covid, quando si è avuta l’impressione che le relazioni internazionali fossero tutte riconducibili a flussi di aiuto in entrata ed uscita ai principali scenari pandemici.

Solo a pochi mesi di distanza dalla fase europea più acuta del virus, ecco che si materializza all’improvviso in Libano, dopo la terrificante esplosione nel porto di Beirut, un altro scenario che sembra riportare con disarmante chiarezza la centralità degli aiuti tra Stati sulla scena mondiale.

Mentre ancora si scava tra le macerie e il bilancio esatto della devastazione è provvisorio – si sono riversate nel Paese assistenze di tipo emergenziale provenienti da ogni parte del mondo (molto pubblicizzate quelle russe e la visita di Macron a Beirut), che ispirano alcune considerazioni su quanto vedremo nei prossimi mesi.

Il primo commento è di carattere generale ed è un invito a non moralizzare né santificare eccessivamente questa corsa agli aiuti per il Libano.

Per quanto è innegabile che essi siano bene accetti (soprattutto nel campo sanitario nel momento dell’emergenza), è evidente che molti dei donatori statuali, benché dichiarino alle proprie opinioni pubbliche di essere mossi da alti valori solidaristici, in realtà vedono nell’intervento la possibilità di entrare da protagonisti in uno scenario di rinnovato interesse geo-politico.

L’esplosione a Beirut non si fermerà all’ingente danno materiale provocato e sposterà l’intero asse dell’equilibrio instabile medio-orientale con una serie di reazioni politiche e militari a catena che andranno ben oltre i confini del tribolato Paese dei cedri e coinvolgeranno Israele, Palestina, Egitto, Giordania, Iraq, Siria, Iran – e i loro sponsor e\o avversari nel contesto internazionale.

Questo rende all’improvviso il Libano (che pure prima dell’esplosione era in una situazione difficilissima – e tuttavia quasi nell’indifferenza generale) un attraente nuovo varco di accesso nello scacchiere della zona sia per quanti vi cercano giochi di sponda – che per quanti vi difendono la propria influenza difficilmente conquistata.

Come già osservato con la Bosnia ed il Kosovo,  il Libano, Paese di per se senza risorse naturali di pregio e con un’economia debole, diventa però d’un tratto un interessante beneficiario per la comunità internazionale dei donatori, appena nuove circostanze lo hanno reso un pivotal-country utile per radicarsi nel più ampio contesto regionale di riferimento.

Poiché gli interessi geo-politici sono raramente a somma-zero, assisteremo quindi al ripetersi di quella guerra degli aiuti, osservata nei principali scenari di crisi degli ultimi decenni e di cui abbiamo avuto un recente assaggio breve ma intenso nel caso italiano degli aiuti durante il Covid.

Con una corsa dei donatori in competizione ad accaparrarsi il beneficiario di turno, dietro la debole retorica del coordinamento che porta con se l’immancabile Conferenza dei donatori (dove tra le righe si potrà già vedere il posizionamento dei vari key players).

La seconda riflessione, logica conseguenza della prima, è che nel Libano viene confermata la stranezza della situazione attuale nel mondo post-bipolare, popolato da molti più Stati donatori che beneficiari (intesi non come Paesi che abbiano un generico bisogno ma che siano target strategicamente interessanti per giustificare l’investimento politico di un intervento dei donatori).

È presumibile che quindi anche in Libano, passata l’emergenza e l’emozione del primo periodo, osserveremo una lunga fase di assistenze alla normalizzazione caratterizzate da fenomeni di donors overload (assembramento di donatori scollegati) e aid overlap (sovrapporsi di tipi di aiuti tra di loro simili).

Il tutto a scapito, ovviamente, della efficienza e efficacia delle iniziative di aiuto su cui – c’è da scommettere finora – si dirà molto poco per non compromettere le narrative giustificative dell’aiuto dei donatori presso le proprie opinioni pubbliche, molto più sensibilizzate sul “prima” che sul “dopo” l’intervento di assistenza.

La terza ed ultima riflessione riguarda l’impatto che avrà questa ondata di aiuti sulla già complessa e compromessa situazione politica e sociale libanese. Anche qui il precedente bosniaco e quello kosovaro non fanno ben sperare.

Davanti a donatori il cui vero obiettivo finale è essere presenti nel contesto strategico geo-politico whatever it takes e pronti per questo a tollerare la scarsa incidenza – quando non il fallimento – degli aiuti che portano, è probabile che il Libano vada verso un quadro socio-economico dipendente cronicamente dagli aiuti e proprio per questo messo nella impossibilità di tornare a una normalità economica e politica. Che, per inciso, è la condizione ideale per una comunità di donatori che ha interesse a radicarsi nel Paese beneficiario e restarvi a lungo.

La cartina di tornasole di questa dinamica nel Libano sarà l’andamento della corruzione, da tempo vera piaga del Paese. Presumibilmente essa andrà aumentando, spesso contando su importanti complicità tra i contractors degli stessi donatori secondo uno schema già visto in passato, anche nello stesso Libano, durante la gestione nei decenni scorsi dalle ingenti campagne di aiuti finanziati dalle Ue, dalla Banca Mondiale, da Usaid.

Anche su questo punto, ovviamente, le narrative dei donatori si soffermeranno molto poco, perdendosi in nuove azioni ridondanti come il lancio di innumerevoli progetti di assistenze tecniche per riformare lo Stato (tra cui, per ironia, anche immancabili progetti di lotta alla corruzione).

Come se bastasse un “progetto” – invece che l’azione diretta di un “soggetto” istituzionale forte e legittimato –  per attivare processi di riforme politiche difficili e dolorose. Ma reali ed efficaci.

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