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Il documento sul Coronavirus? Non si secreta la democrazia. Il monito di Mirabelli

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La trasparenza salva la democrazia. A volte può anche salvare vite. Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, lancia un monito in direzione Palazzo Chigi: “Lo stato di emergenza non è un passepartout”. Un documento del 12 febbraio, ha svelato Repubblica, informava il ministero della Salute delle stime da vertigine della pandemia da Covid-19 in Italia: tra i 60mila e i 120mila contagi, 10mila posti letto mancanti nelle terapie intensive, almeno 35mila morti. È stato tenuto riservato fino ad oggi. Ora qualcuno dovrà spiegare perché.

Presidente, non si tratta di un documento qualsiasi.

Mi sembra che da quella ricerca emergesse chiaramente il fabbisogno delle terapie intensive. Un’esigenza che è stata trascurata, e si poteva ricavare già dal divario fra Italia e altri Paesi europei, come la Germania.

È stato tenuto riservato. Andava reso pubblico?

Penso di sì. La trasparenza della Pubblica amministrazione è ancorata a un principio della Costituzione, quello di imparzialità e buon andamento. Non solo la conoscenza, ma la conoscibilità delle informazioni e degli atti amministrativi di interesse generale, come questo, è uno degli elementi che concorrono a qualificare una democrazia. La non conoscenza degli atti era un principio cardine dello Stato autoritario.

Per portare alla luce il rapporto ci sono voluti mesi di tiro alla fune. Il governo non riteneva di renderlo pubblico durante l’emergenza.

Lo Stato d’emergenza non è un passepartout. Non impone la non diffusione di notizie o documenti del genere. E deve essere rapportato a un’emergenza reale, limitata nel tempo.

A maggio il direttore della programmazione del ministero della Salute Andrea Urbani disse che il piano nazionale d’emergenza prevedeva tre scenari, e che il peggiore non poteva essere divulgato per non “scatenare il panico fra i cittadini”.

Deve esserci una motivazione più forte per tenere riservati questi documenti. Se si prevede un’eruzione del Vesuvio, non se ne dà notizia anticipatamente per non diffondere il panico? Non si può considerare il popolo bue. Il panico, semmai, può derivare dall’assenza di trasparenza, da informazioni frammentate e inesatte, che riguardano la generalità.

Quelle cifre erano perfino superiori a quelle registrare in seguito. Non c’era il rischio di creare confusione?

Tutt’altro. Le informazioni, anche quelle gravi, concorrono non solo a dare trasparenza all’azione della Pa ma anche a sollecitare l’adesione dell’opinione pubblica a comportamenti idonei allo stato d’emergenza, a renderla consapevole. Qui devo fare un appunto al Parlamento.

Ovvero?

Mi pare che da questa vicenda l’istituzione esca indebolita. Non c’è stato alcun segreto di Stato, ma semmai un segreto d’ufficio, che certo non è opponibile al Parlamento. Le Camere hanno tutti i poteri necessari per conoscere cosa fa il governo e indirizzarne l’azione.

Mirabelli, lo stato d’emergenza prima o poi deve finire?

Ripeto, è per definizione limitato nel tempo, e proporzionato. Ho dubbi, pur comprendendone le ragioni, su atti amministrativi come i Dpcm usati come strumento di limitazione delle libertà. Fin dove si può comprimere un diritto? È una domanda che altrove si sono posti. In Germania il Tribunale costituzionale ha ritenuto eccessiva la limitazione degli accessi ai luoghi di culto islamici. In Francia il Consiglio costituzionale ha ben spiegato la distinzione fra limitazione proporzionale e soppressione dei diritti.

Alla base di tutto c’è un cortocircuito italiano. Tecnici o politica, chi decide?

La politica deve decidere. I tecnici devono essere ascoltati, ma possono dare elementi di conoscenza difformi, come in effetti è successo. La gravità della crisi ha portato spesso a decisioni immediate, ci ha trovati impreparati. Non c’è nulla di scandaloso. Ma spetta alla politica assumersene le responsabilità.

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