Il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari in Italia si avvicina a grandi falcate. Sembrava scontata una vittoria del Sì fino a qualche mese fa. Ad essere cattivelli, la soffiata arrivata dall’Inps sui famosi “furbetti” (i parlamentari che hanno chiesto il contributo di 600 euro), ripresa con grandi titoli, e per diversi giorni, da molti giornali, sembrerebbe forse indicare che una tale vittoria non è più certa al 100%. Chissà.
In questo senso, vale la pena spendere due parole sulle ragioni per il Sì e per il No. Secondo me esistono tre ordini di ragioni comuni ad entrambi i fronti: quelle fattuali, quelle ideologiche e quelle strategiche. Le prime due grosso modo si equivalgono. Le ragioni fattuali nella sostanza. Quelle ideologiche nella loro pochezza. Rimangono, come vedremo, quelle strategiche. Ed è su queste che il centrodestra dovrebbe farci (più di) un pensierino.
Partiamo da quelle fattuali. Chi sostiene il Sì sostanzialmente avanza tre ordini di ragioni: primo, in Italia abbiamo più parlamentari delle altre democrazie europee. Il referendum ci porterebbe quindi in linea con gli altri Paesi, potenzialmente rendendo più visibile il ruolo dei parlamentari, che pertanto sarebbero (finalmente?) chiamati ad una maggiore responsiveness nei confronti degli elettori, migliorando per questa strada la qualità della democrazia italiana. Secondo: ridurre il numero dei parlamentari comporterebbe un (piccolo, ma sempre superiore a zero) risparmio di spesa pubblica. Terzo: siccome i tentativi di riforma costituzionale organici sono tutti falliti negli anni passati, è meglio avviare un processo di riforme costituzioni puntuali. Partiamo dalla riduzione del numero dei parlamentari, e lasciamo al Parlamento successivamente il compito di modificare gli assetti istituzionali coerenti con tale riduzione (a partire dal bicameralismo perfetto, ecc.). Ed è proprio questo ultimo aspetto a portare legna al fronte del No. Esiste infatti più di un dubbio riguardo alla capacità da parte dell’attuale maggioranza parlamentare di accordarsi su alcunché, specie sulle necessarie riforme istituzionali che dovrebbero accompagnare una vittoria del Sì al referendum. Con il rischio non di generare una riforma monca, come dice qualcuno, bensì inutile, se non addirittura dannosa, per la qualità del funzionamento di un Parlamento chiamato ad agire esattamente come prima, ma con la metà dei suoi membri. Ergo, perché firmare un assegno in bianco di cui si sa la partenza ma non l’arrivo? Perché il rischio concreto è che la vittoria del Sì serva solo ad accelerare l’attuazione di una riforma elettorale puramente proporzionale. Una riforma che andrebbe esattamente contro gli auspicata di chi sostiene il Sì: dato che non solo ridurrebbe gli incentivi alla responsiveness dei deputati (altro che aumentarla), ma anche rinvierebbe inevitabilmente alla sede parlamentare il momento della formazione del governo, facendo così venire meno una delle poche cose politicamente valide della Seconda Repubblica: la possibilità da parte dei cittadini, al momento del voto, di scegliere non solo un partito, ma anche, in fieri, una coalizione di governo.
Le ragioni ideologiche dietro ai due schieramenti sono invece ben note: il voto per il Sì, è un voto contro la casta. Il voto per il No, è un voto per salvaguardare la costituzione più bella del mondo contro la minaccia populista. Entrambe le ragioni sono assolute, quindi inattaccabili, e pertanto indifendibili
E veniamo infine alle ragioni strategiche (politicamente parlando). La vittoria del Sì verrebbe inevitabilmente fatta propria dal M5S, indipendentemente da chi aveva votato Sì con lui a riguardo in Parlamento. E lo sarebbe, inutile nasconderselo. Lo sanno benissimo anche i vertici del Pd. Tanto è vero che sono ben pronti a pagarne il prezzo, perché è l’unica strada per rafforzare l’intesa con i 5 Stelle anche a livello locale, nonché per cementare l’alleanza di governo in vista della elezione del Presidente della Repubblica prossimo venturo (e degli ingenti fondi europei in arrivo che necessitano di qualcuno che li gestisca…). D’altra parte, una bella riforma proporzionale a seguito della vittoria del Sì sarebbe anche l’unico modo, stante gli attuali sondaggi, per aumentare la probabilità di una non vittoria del centrodestra. Non è un caso, quindi, che il governo sia massicciamente (con qualche marginale defezione nel Pd – ma quando non ci sono?) a favore del Sì.
È invece un mistero per quale ragione il centrodestra continui ufficialmente ad esserlo. Certo, fare una inversione ad U oggi potrebbe essere costosa (ma non l’ha fatta in senso opposto anche il Pd?). Certo, le possibilità che il Sì vinca sono nettamente – al momento – maggiori che l’alternativa, e sarebbe politicamente costoso essere dalla parte dei perdenti (specie se il Sì dovesse vincere con maggioranze bulgare – chiedere a Craxi e al suo “andate al mare” per conoscenza). Ma… 1) al referendum costituzionale non occorre un quorum. E questo è un punto importante: ad andare a votare (specie nelle regioni in cui non si vota per le amministrative) saranno quindi quelli più interessati al tema. Quelli più mobilitabili da una narrazione politica forte a seguito di un centrodestra che prendesse finalmente una chiara posizione a riguardo per il No; 2) la vittoria del No (o anche una sua risicata sconfitta) sarebbe un colpo importante (ferale?) per l’attuale maggioranza, specie se accompagnato da un buon risultato (del centrodestra) alle regionali.
La creazione da parte di Paragone del suo Italexit, e le prime stime sondaggistiche lusinghiere che lo accompagnano, potrebbero infatti rappresentare una luce per attirare diverse falene (ovvero parlamentari) del M5S preoccupate del loro futuro, abbandonando così facendo l’attuale maggioranza (che al Senato, ricordiamolo, ha numeri assai risicati); 3) come già detto più sopra, la vittoria del Sì aprirebbe le porte all’unica riforma elettorale che impedirebbe una chiara vittoria al centrodestra. Insomma, schierarsi per il No sarebbe una opzione rischiosa per il centrodestra, senz’altro. Ma sarebbe un rischio da correre. Che altro gli rimarrebbe da fare se vuole davvero evitare di aspettare le elezioni del 2023 per tentare di ritornare al potere con, dulcis in fundo, un Romano Prodi a sovraintendere il processo di formazione del governo come neo-Presidente della Repubblica? Chi non risica, non rosica, direbbe qualcuno.