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Da Draghi cinque lezioni per una politica più saggia. Scrive Stefano Parisi

Dall’intervento di Mario Draghi al meeting di Rimini possiamo trarre cinque importanti lezioni per l’Italia. La prima è che le parole pesano. Da quando ha lasciato la Bce, seppur molto evocato, Draghi ha parlato poco. L’ultima volta è stato il 25 marzo con il suo famoso articolo su . Si può tracciare una linea retta tra quel suo primo intervento sulle conseguenze economiche della pandemia e i contenuti di Rimini.

Rispetto alla grande confusione di dichiarazioni, interviste, interventi sui social, apparizioni nei talk show dei tanti leader italiani, lui parla poco e dice cose molto serie e lineari.
Credibilità, affidabilità, sobrietà, queste sono le caratteristiche più importanti che dovrebbe avere un leader politico, un alto funzionario, un membro del governo, in particolare in questi drammatici mesi.

La seconda è che le politiche economiche adottate devono disperdere la già grave incertezza data dal grave contesto in cui viviamo. I governi non devono aggiungere incertezza. Se la percezione si deteriora il quadro sarà più incerto e ci saranno effetti sugli investimenti, i consumi e l’occupazione. “Siamo governati dall’incertezza invece di governarla”. Il governo va avanti con atti e dichiarazioni contraddittorie, rinvia le decisioni per paura di confrontarsi con la realtà sociale e politica, adotta provvedimenti dal corto respiro e pieni di correzioni e aggiustamenti.

La terza è che esiste il debito buono (quello che verrà impiegato per allargare la base produttiva e aumentare la competitività del sistema economico) e quello cattivo (quello disperso in mille rivoli di sussidi e bonus). E che se i mercati e l’Ue percepiscono che il debito italiano è cattivo oltre ad essere enorme, rischia di non essere più sostenibile. I tassi di interesse bassi non sono per sempre, il supporto dei mercati e dell’Ue può venir meno.

La quarta è che il rischio più grave di questa crisi è la distruzione del Capitale Umano che potrà avere conseguenze drammatiche sui giovani. Questi si troveranno sulle loro spalle un debito enorme senza avere la preparazione per poter creare la ricchezza necessaria a poterlo ripagare. Se non ripensiamo al nostro sistema educativo, ai giovani resta solo il peso del debito.

La drammatica sottovalutazione delle conseguenze della chisura delle scuole, la totale inadeguatezza del governo su questo tema, l’impreparazione di fronte alla necessità di riaprire le scuole, e soprattutto, la risposta che la politica intende dare (solo assunzioni di precari e banchi nuovi) fa capire quanto grande sia il rischio che i nostri giovani paghino nei prossimi anni il prezzo più alto di questa crisi.

La quinta lezione Draghi l’ha data quando ha evocato lo spirito del secondo dopoguerra, quella spinta alla ricostruzione, quel cambiamento nella mentalità dei leader europei e americani indotto dai grandi cambiamenti epocali. Allora la riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse. Vi era un laboratorio di idee nei partiti in caldestinità, nelle università dei paesi liberi, che non si fecero trovare impreparati davanti alle conseguenze della guerra. Purtroppo l’aridità del dibattito accademico e intellettuale di questi mesi indebolisce la nostra forza di reazione.

Ovviamente, dopo qualche ora di disorientamento dovuto alla comprensione di un linguaggio insolito per la politica e forse qualche torsione logica per cercare di trovare appigli, sono iniziate ad uscire le prime dichiarazioni di apprezzamento da parte della politica. Addirittura Zingaretti ha considerato l’intervento di Draghi un’approvazione per la linea del Governo! “Dai giovani e la svolta green all’uso delle risorse Ue, c’è dentro quel che serve per andare avanti nell’interesse del Paese” ha dichiarato. Eppure Draghi aveva citato Keynes: “When fact change, I change my mind. What do you do, Sir?”

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