Perbacco, mi si è ristretto il Recovery Fund! Potrebbe pronunciarlo uno dei prossimi presidenti del Consiglio dei ministri. Probabilmente, all’inizio della prossima legislatura. Infatti, i finanziamenti a titolo del Recovery e Resilience Fund cominceranno ad essere erogati nella seconda metà del 2021 e verranno spalmati in tranche su un arco di tre-quattro anni; quindi sino al 2024-25.
Questa è di per se stessa una buona ragione per coinvolgere, nel dare indirizzo sulla ripartizione ed attuazione, un’area più vasta dell’attuale maggioranza parlamentare, includendo, quindi, anche l’opposizione. Dato che i fondi verranno erogati dal 2021 al 2024-24 pure la raccolta da parte della Commissione europea avverrà su un arco pluriennale, presumibilmente dal 2021 al 2024.
L’Italia conta di ottenere 209 miliardi di euro (81 miliardi in sovvenzioni non rimborsabili) e 127 miliardi in prestiti agevolati). Presumibilmente, in questo caldo agosto si sta mettendo a punto il programma di riforme e di investimenti da finanziare con queste risorse aggiuntive. Se il programma verrà ritenuto soddisfacente dall’Unione europea (Ue), e non ci saranno problemi nella sua attuazione, i flussi di danaro giungeranno a rate, e sotto la vigilanza europea.
Tutto sarebbe relativamente semplice (per modo di dire) se la Commissione europea non dovesse fare una provvista per dare corpo al Recovery and Resilience Fund. Secondo le intenzioni, la provvista dovrebbe venire da due fonti: a) emissione di obbligazioni della Commissione sul mercato internazionale da rimborsare a partire dal 2028; b) e “risorse proprie” che la Commissione otterrebbe da nuovi proventi tributari, esatti e gestiti dalla Commissione medesima.
Su queste “risorse proprie” sorgono due ordini di problemi. In primo luogo, numerosi giuristi si interrogano se sia ipotizzabile che la base per trasferire nuova capacità tributaria alla Commissione sia l’approvazione, da parte del Consiglio europeo, del documento Next Generation Eu quale modificato il 18 – 21 luglio scorso o non ci voglia invece un accordo intergovernativo ratificato dai 27 Stati membri dell’Ue. In tal caso, l’inizio stesso dell’operatività del Recovery and Resilience Fund verrebbe ritardato almeno di un paio di anni.
Ammesso che questo ostacolo venga superato, resta il secondo: l’ipotizzabile consistenza delle “risorse proprie”. Si tratta di tre nuove imposte “comunitarie”, non nazionali che si aggiungerebbero alla pressione fiscale già in vigore nei singoli Stati dell’Ue. La prima è relativamente facile da normare ed attuare: un’imposta sui rifiuti di plastica, che, se varata, dovrebbe generare 7,4 miliardi di euro l’anno a partire dal 2021 (un piccolissimo contributo rispetto ai 750 miliardi del Recovery and Resilience Fund).
Le altre due sarebbero più consistenti ma di difficile attuazione. Il “carbon border adjustment mechanism” dovrebbe generale sino a 14 miliardi l’anno. Si tratta di un dazio sui prodotti inquinanti da lavorazioni del carbone. Il nodo principale e che cozza con le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio la “non discriminazione” e la “reciprocità”.
Ci si deve aspettare una battaglia molto dura e da cui non è affatto certo che l’Ue uscirà vincente in quanto si può immaginare una “grande coalizione” (dal Nord America ai maggiori Paesi in via di sviluppo) che vi si opporranno.
L’altra, la così detta web tax (ossia imposta sui colossi del web) potrebbe generare circa 30 miliardi di euro l’anno è ancora più impervia: da quattro lustri si sta cercando un accordo in sede Ocse senza alcun risultato; quando la Francia ha tentato di muoversi unilateralmente, gli Usa hanno reagito con “dazi di ritorsione stratosferici” nei confronti dei prodotti francesi.
La Commissione europea ha previsto una clausola di salvaguardia: se “le risorse proprie” non si materializzano e saranno meno di quanto ipotizzato, verrà aumentato il bilancio pluriennale finanziato dai singoli Stati dell’Ue. Ciò colpisce soprattutto l’Italia.
In generale i singoli Stati membri contribuiscono al bilancio comunitario in misura proporzionale alla rispettiva prosperità economica. Considerando i dati di consuntivo 2017, l’Italia risulta essere il terzo contributore al bilancio Ue, partecipando al relativo finanziamento nella misura di circa il 12%.
La prima posizione è occupata dalla Germania (20,5%), al secondo posto figura la Francia (15,5%). Uk (11,9%) si collocava invece al quarto posto, subito dietro l’Italia, Anche dopo la Brexit, l’Italia è il terzo maggior contributore.
Quindi, se le “risorse proprie” producono nell’arco di tempo del Recovery and Resilience Fund, 50 miliardi meno di quanto ipotizzato, circa 17 saranno a carico dell’Italia, diminuendo, al netto, le sovvenzioni su cui l’Italia conta. Se il divario è di 100 miliardi, al netto le sovvenzioni più che si dimezzano. Il Recovery sarebbe davvero striminzito.