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Perché l’arma nucleare non si usa, ma serve (purtroppo). Scrive Arpino

Gli armamenti nucleari: ritorno al passato, come giudicano alcuni analisti, o “ritorno al futuro”, come suggestivamente ritengono i più immaginifici? Dipende dall’approccio iniziale e da quanto di ideologico si vuole inserire nella struttura del ragionamento. Proprio in funzione di questo, infatti, entrambe queste categorie di pensatori potrebbero avere ragione. Non è affatto detto che chi sta rottamando molte vecchie regole, nello sdegno dei politicamente corretti in maniche di camicia bianca, debba trovarsi nel torto per decreto. E se invece costui, venendo dal mondo del business, semplicemente vedesse più lontano?

Qui non vogliamo certo fare propaganda alle sorti più o meno progressive dell’ondivago Trump. La campagna elettorale di casa nostra ci basta, ci avanza e ci annoia parecchio. Le disordinate battaglie che “The Donald” sta conducendo per l’obiettivo America first non mirano ad una guerra cruenta, ma aduna supremazia globale di stampo economico. Per vincere questo tipo di guerre occorre tenere ben affilate tutte le panoplie utili allo scopo. Certo, quella militare è tra le più importanti. Non è l’unica, ma ci deve essere, avendo un indotto non solamente nell’industria, nella tecnologia e nel dominio nucleare e cibernetico, ma sopra tutto nel sostegno in being alla politica estera, e quindi a quella economica. Da qui l’ammodernamento del nucleare e dei relativi vettori missilistici, orbitali e convenzionali. Un sistema militare del genere è come una grande flotta costantemente in navigazione: non è detto debba sparare e distruggere. Anzi, non lo fa quasi mai. Ma esiste, ed è una presenza immanente che rende più efficace sia l’azione politica, sia lo sforzo diplomatico.

Parlando di nucleare, dobbiamo necessariamente tornare agliStati Uniti. D’accordo, Trump è un iconoclasta che tende a distruggere la maggior parte dei vecchi trattati, che mantengono ancora un minimo di equilibrio con la realtà della loro esistenza, piuttosto che con una effettiva capacità di coercizione. Ma sono superati, alcuni forse anche dannosi. Prendiamo ad esempio il Trattato di non proliferazione (Tnp), di fatto un ristretto club nucleare cui solo pochi, con regole create ad hoc, hanno avuto la possibilità di accedere in tempo utile. La prima regola, materia di 25 anni di discussioni in sede Onu, è questa: sono automaticamente iscritti al club i Paesi che avessero posseduto armi nucleari funzionanti e sperimentate alla data del 1° gennaio 1967.

E’ con questo automatismo che i cinque membri del Consiglio di Sicurezza (Usa, Urss/Russia, Regno Unito, Francia e Cina) erano diventati i signori del nucleare, con diritto di scelta o di veto. Quanto vale tutto questo al giorno d’oggi, quando qualsiasi Paese, mediamente sviluppato ma fuori dal club, è ormai in grado di costruirsi un’atomica e molti (vedi Pakistan, India, Corea del Nord, Israele, che non lo ha mai ammesso) ne sono da tempo in possesso? I principi su cui si regge il Tnp sono essenzialmente due: primo, gli stati “non nucleari” non potranno mai più avere questo tipo di armi. Secondo, gli stati già “nucleari” non potranno trasferire ai non nucleari la loro tecnologia. Chi lo decide? Quel club dei cinque dove, singolarmente, ciascuno si comporta come più gli piace. Non è lontano dalla realtà supporre che Trump, prima o poi, farà saltare anche il Tnp.

Come un insistente vento trasversale che ha preso forza in tempo di Covid-19, l’Europa (sopra tutto in Italia e in Germania) è oggi attraversata da correnti fredde che, anche a rischio di far fare pessima figura a governi e coalizioni, si oppongono al nucleare nuovo e vecchio, a credibili mezzi di lancio di quinta e sesta generazione, a ospitare sul proprio territorio le testate Usa da utilizzare con vettori nazionali, in regime di “doppia chiave”. E’ vero che queste proteste negli ultimi sessant’anni ci sono sempre state, riemergendo e scomparendo periodicamente come un fiume carsico, ed è normale che sia così, perché convivere con le bombe atomiche vicino a casa non piace a nessuno. Ma questa volta c’è un elemento in più: è diffuso il convincimento che quel loquace antipatico di nome Donald Trump, oltre ad imporci armi e vettori, sia anche prontissimo a usarle per a difesa (o la riconquista) dell’interesse nazionale americano.

Sarà il caso, allora, di fare una riflessione che gli imbonitori in maniche di camicia bianca forse non hanno mai fatto: Donald Trump, oltre che un tycoon, è anche un repubblicano, e i repubblicani, poco inclini alle ideologie, difficilmente iniziano guerre guerreggiate, cruente, con carri armati, stormi di bombardieri, missili e bombe atomiche. Preferiscono raggiungere il successo mandando al fronte le armi del potere economico, come minacce, sanzioni, dazi e, successivamente, accordi bilaterali. E’ cosi che il repubblicano Reagan ha soffocato il respiro economico dell’Urss, promuovendo sistemi militaritecnologicamente così evoluti da far collassare Mosca nel tentativo di un inutile inseguimento.

Se ci soffermiamo anche per poco sulle pagine della Storia recente, ci accorgiamo che – fatti salvi i due Bush con gli eventi contro l’Iraq di Saddam – le guerre più sanguinose combattute dall’America portano sempre il sigillo dell’asinello, simbolo del Partito democratico. Qualche esempio? Wilson, democratico, ha portato l’America a combattere la prima guerra mondiale. Roosvelt, sempre democratico, ha fatto identica cosa con la seconda, conclusa dal successore, il democratico Truman, con due belle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Sempre a Truman, in un successivo mandato, è toccata la sorte di partecipare con alterne vicende alla guerra di Corea. John Kennedy, democratico doc e idolo delle folle, ha impantanato l’America nella guerra del Viet Nam, poi maldestramente continuata dal democratico Johnson e finalmente “chiusa” da Nixon, repubblicano. Da ultimo, veniamo al democratico Obama, il presidente che ha depotenziato le attività spaziali trasformando la Nasa in un residence per cassaintegrati, lasciando cosi campo libero a Cina e Russia, sempre pronte a riempire ogni vuoto. Ebbene, Obama, di concerto con il francese Sarkosy e nel silenzio-assenso di Russia e Cina, è stato uno dei promotori di quell’attacco alla Libia che, a partire dal marzo 2011, ha messo nei guai l’Italia, il Mediterraneo e tutto il Nordafrica.

Il twitteroso Donald Trump, che in quattro anni ha rovesciato un sistema d’altri tempi senza purtroppo crearne una nuovo, oltre a quelle commerciali non ha fatto guerre, ma hacomunque riportato gli Stati Uniti ad essere prima potenza nei quattro elementi, o cinque se vogliamo includere anche lo spazio cibernetico. Certo, ha ammodernato anche l’arsenale nucleare e – questo bisogna che qualcuno lo dica almeno una volta – lo ha fatto in continuità con quanto già intrapreso da Barack Obama, idolo di quei verdi e di quei pacifisti che oggi protestano contro le atomiche “pulite” di Trump.

E allora, se vogliamo tentare una risposta al quesito iniziale, a nostro avviso il nuovo programma di armamenti atomici è un salto nel futuro che tiene conto dell’esperienza del passato. Nessun timore: seppure su un piano tecnologico e relazionale diverso, queste armi rimarranno custodite nei loro silos e la loro stessa presenza farà in modo che nessun altro al mondo osi utilizzarle. Stupido? Sì, ma anche intelligente. E’ un paradosso che continua.

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