“Dio ha creato la famiglia, gli uomini hanno inventato gli istituti”. La riuscita battuta di don Oreste Benzi torna particolarmente d’attualità mentre ci lecchiamo le ferite per i danni provocati dal coronavirus. L’Oms ha rilevato come la metà delle morti per coronavirus in Europa siano avvenute in case di riposo. Presi senza la freddezza aritmetica di statistiche e bollettini, i numeri della pandemia ci raccontano un’impressionante strage di anziani che non ha risparmiato alcun Paese. Il Vecchio Continente, definizione derivata da altri motivi storici ma che ha finito per fotografarne alla perfezione la contemporanea tendenza all’invecchiamento della popolazione, è stato inevitabilmente tra i più colpiti.
Il dramma appena vissuto dovrebbe condurre ad una riflessione più profonda sull’atteggiamento della società europea verso gli anziani. Il dolore per i nonni morti da soli e sepolti senza funerale è il cazzotto nello stomaco che dovrebbe convincerci una volta per tutte ad archiviare la concezione meramente economicistica della vita umana. Non è giusto che la ferita aperta per quanto appena accaduto sia la causa di una immeritata criminalizzazione del mondo delle Rsa, formato da dirigenti e lavoratori in larga maggioranza encomiabili. Ma alla luce delle fragilità evidenziate dal coronavirus e al cospetto di un continente in cui vivono 27 milioni di ultraottantenni, non è un’eresia ripensare il modello di accoglienza ad oggi prevalente.
In Italia, in particolare, la prospettiva di vita aumenta e la copertura della non autosufficienza, con risorse scarse e servizi ai minimi, rischia di diventare il problema principale in un futuro non lontano in cui un nostro connazionale su tre avrà i capelli bianchi. Il ricorso all’istituzionalizzazione non può essere considerata la soluzione: laddove non necessario, il ricovero in strutture residenziali assistenziali o di cura a lungo termine nasconde dietro all’angolo il pericolo della spersonalizzazione e della solitudine, a prescindere dalla qualità del personale che vi opera. Un modello assistenziale alternativo non va inventato perché già esiste e funziona: si tratta del cosiddetto cohousing grazie al quale gli anziani possono continuare a vivere in un contesto che sentono di poter chiamare “casa”.
Si tratta di realtà che si contraddistinguono per l’alta sostenibilità economica e il grado di autonomia che sono in grado di garantire, con spese divise unendo spesso pensioni minime e una qualità della vita resa migliore anche dai maggiori momenti di socializzazione. Esistono opzioni, poi, come quella detta del “badante di condominio” che alleggeriscono i costi per chi non è autosufficiente, facilitano la vita del lavoratore che non deve sobbarcarsi spostamenti stancanti e favoriscono un senso di comunità benefico per tutti gli attori coinvolti.
Indubbiamente, però, la strada migliore resta quella della permanenza in famiglia dove gli anziani possono sentire quella vicinanza che li aiuta ad andare avanti e i giovani possono usufruire di quelle radici che gli consentono di crescere come alberi fortificati. Papa Francesco non si stanca di ricordarlo nelle sue omelie: la vecchiaia non è una malattia e i nipoti devono stare vicini ai loro nonni per assorbirne la saggezza. La permanenza in casa degli anziani è la vittoria più importante contro la cultura dello scarto ma richiede l’intervento fondamentale delle istituzioni attraverso il rafforzamento dell’assistenza domiciliare e gli aiuti fiscali alle famiglie che decidono di convivere con parenti di età avanzata non autosufficienti.
Quali sono i segni che l’immane tragedia appena vissuta ci ha lasciato in fatto di welfare per anziani? Una risposta ha provato a darla il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna: “a me piacerebbe – ha dichiarato in un’intervista – che una volta finita questa emergenza il ‘Restiamo a casa’ diventasse una nostra regola di vita e ci fosse un nuovo slogan: Meno case di cura e più case famiglia e co-housing“. Vale la pena provare ad allargare questo modello fino ad oggi poco pubblicizzato, non dimenticando che – come disse Benedetto XVI nel 2012 – “la qualità di una società, (…) di una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune”.