La battaglia, purtroppo mai vinta, per la semplificazione del Paese si sposta periodicamente sul terreno della regolamentazione degli appalti e, in questi giorni, il dibattito si sta concentrando sull’estensione del cosiddetto modello Genova, largamente basato sul commissariamento delle opere da realizzare, fino a ipotizzare il ridimensionamento o addirittura l’abolizione del Codice dei contratti pubblici, con conseguente espansione delle direttive comunitarie.
Il Ponte di Genova, realizzato in tempi davvero sorprendenti, costituisce una storia di successo e, come tutte le storie di successo, va studiato per individuarne le peculiarità che l’hanno resa possibile e valutarne l’esportabilità in altre esperienze e dunque eventualmente la generalizzazione nel sistema. È pensabile utilizzare il modello Genova in via ordinaria, facendo ricorso solo alle direttive comunitarie e concentrando le competenze in capo a un unico soggetto?
Per rispondere a questa domanda credo non possa essere sottovalutato un dato che può essere utile in una prospettiva di riforma: al successo del modello Genova non è stato estraneo l’afflato esistente su questa struttura determinatosi all’indomani della terribile tragedia del 2018. La maggior parte dei protagonisti della vicenda procedimentale della ricostruzione sono stati sin da subito d’accordo su quattro punti: con quali soldi costruire il ponte, se costruirlo, dove costruirlo e, tutto sommato, anche come costruirlo.
È questo però un fatto straordinario, direi unico, perché la realizzazione di ogni opera pubblica sconta, pur in misura differente, il peso dell’incertezza del dibattito sull’utilità dell’opera, sul suo impatto ambientale, sulla sua localizzazione, sulle risorse finanziarie da utilizzare.
Basti pensare in questo senso alla sindrome da Not in my back yard che affligge qualsiasi opera pubblica, con qualsiasi tecnologia utilizzata, attinente i rifiuti. Basti pensare ai sentieri accidentati tra Cipe, ministeri vari ed enti locali che ogni opera importante deve attraversare prima soltanto di essere solo progettata o ai provvedimenti in autotutela o addirittura alle impugnazioni al Tar che accompagnano spesso i cambi di maggioranza politica degli enti locali per bloccare la realizzazione di opere decise in precedenza.
E che molto tempo si perde nella fase della decisione è confermato da un recente studio di Tor Vergata dedicato ai tempi di attraversamento dei procedimenti per la realizzazione di un’opera pubblica: degli oltre 1.300 giorni mediamente necessari per l’attuazione di un investimento, 254 sono dedicati alla programmazione, 372 alla progettazione, 276 alla gara e 210 (837 per i progetti più grandi) all’esecuzione.
Pensare una riforma degli appalti non può trascurare quindi quello che sta prima e dopo la fase dell’aggiudicazione. La programmazione e la progettazione anzitutto: le fasi in cui forte è l’esigenza di una responsabilizzazione della politica e delle comunità e in cui occorre evitare che la congerie di autorizzazioni che vi convergono non consentano a troppi soggetti, talora portatori di interessi minori, di paralizzare gli investimenti. E poi l’esecuzione che, come recentemente affermato dal Consiglio di Stato, non può essere terra di nessuno: le cronache sulle maestranze che a Genova lavoravano durante la notte e il weekend siano di monito.
Il dibattito invece sembra troppo polarizzato oggi sulla fase dell’aggiudicazione, che indubbiamente merita di essere semplificata ma che è regolata da norme che ormai le amministrazioni hanno digerito e fatto proprie come dimostrato dai dati sugli appalti in costante crescita, passati nel 2019 da 139 a 169 miliardi di euro, con un incremento del 22,9% rispetto all’anno precedente e ben del 69% rispetto al 2016 vero e proprio annus horribilis dei contratti pubblici. Pensare sempre e solo a come non fare le gare senza semplificare tutto il resto rischia di sacrificare la concorrenza senza favorire sviluppo e occupazione.