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Razzi e alleanze. La geopolitica della Space economy secondo Spagnulo

Sempre più spesso si leggono dichiarazioni di esponenti politici, accademici, industriali e persino del mondo finanziario su come la “Space Economy” sosterrà il rilancio del nostro Paese fornendo nuove opportunità a imprenditori innovativi che proietteranno il nostro tessuto sociale e produttivo nel prossimo cyber-futuro. Eppure, al di là delle condivisibili genericità di tali affermazioni, quasi mai si coglie uno spunto di “pensiero strategico” su quali linee di sviluppo perseguire concretamente, magari associandole a una traccia di politica industriale che coniughi degli obiettivi geopolitici e geoeconomici, unitamente alle legittime ambizioni commerciali delle imprese.

È forte il timore che l’assenza di tali spunti possa essere frutto di una scarsa conoscenza “tecnopolitica” del passato, del presente e di conseguenza di come lo Spazio stia evolvendo in Europa e nel mondo. Per l’uomo della strada il termine “Space Economy” evoca, con un mix di timore e speranza, un prossimo futuro tecnologico quasi fantascientifico; per l’uomo politico sembra essere un’efficace chiave mediatica di consenso; mentre per gli industriali del settore è senza dubbio una buona occasione per aggregare finanziamenti. Ma per chi governa il Paese cosa è davvero la “Space Economy”? E che cosa rappresenta in termini di posizionamento politico, tecnologico e commerciale in una prospettiva a dieci anni?

Una profonda riflessione strategica su questo tema appare necessaria, anche perché in Europa e nel mondo si stanno verificando dei cambi di paradigma che fino a poco tempo fa erano impensabili. Per essere chiari cominciamo col dire che non può esistere una “Space Economy” senza Rocket Science. Cioè, non si sviluppano servizi e applicazioni sia Space-based sia downstream sulla Terra senza disporre nello Spazio di satelliti di varia dimensione e tipo; e non si mandano nello Spazio quest’ultimi senza avere dei lanciatori, cioè appunto Rocket Science.

Se non si comprende questo semplice concetto di fondo, si continuerà a (s)parlare di “Space Economy” a ogni convegno o intervista, salvo poi rendersi conto che anche per lanciare un solo cubetto spaziale (traduzione per definire un CubeSat cioè un satellite delle dimensioni di una scatola di scarpe) dovremo andare a comprare dei vettori statunitensi, indiani, cinesi, giapponesi, neozelandesi o magari anche inglesi e tedeschi. E qui si arriva a come pensare una collocazione strategica del nostro Paese in questo futuro che non è prossimo, ma è già alle nostre porte.

Circa le ambizioni spaziali della Gran Bretagna abbiamo già parlato, ora è anche il caso di vedere cosa sta facendo la Germania. A febbraio 2019 il ministro dell’Economia di Berlino, Peter Altmaier, ha presentato il Piano “German Industry 2030” con cui ha illustrato la strategia politica del governo federale per far crescere le proprie aziende e startup, anche quelle spaziali, a fronte della concorrenza americana e cinese. Ovvio che per Parigi una tale ambizione strategica non possa non far temere impatti sul nucleo egemone franco-tedesco che guida l’Europa, e infatti in concomitanza con il Piano tedesco i due ministri dell’Economia di Berlino e Parigi, Altmaier e Le Maire, hanno presentato insieme il “Franco-German Manifesto for Industrial Policy”. Si badi bene: un manifesto, cioè una proposta di framework comune per difendere la sovranità tecnologica europea, cioè delle linee di principio che non escludono dei distinguo sull’approccio delle singole nazioni. E proprio nella Rocket Science si stanno evidenziando queste differenze, poiché in Germania si sta assistendo alla nascita di nuove iniziative che potrebbero precludere a situazioni oggi impensabili. L’agenzia spaziale tedesca DLR ha già finanziato tre aziende tedesche per sviluppare nuovi vettori di lancio di piccole dimensioni, che hanno chiamato micro-lanciatori, forse per non “urtare” la sensibilità dei partner europei, Francia in-primis che considera i veicoli di lancio materia di sovranità nazionale. Dei tre beneficiari due sono startup: Isar Aerospace e HyImpulse Technologies, che hanno già realizzato razzi sonda e stanno progettando missili e motori più grandi e innovativi. La terza è OHB Rocket Factory Augsburg, una controllata della società madre che già costruisce satelliti per il mercato commerciale e per il governo tedesco. Oltre al DLR anche l’Agenzia spaziale europea (Esa) e il ministero federale tedesco per gli Affari economici sostengono queste aziende e nel 2021 dovrebbero finanziarle con ulteriori 25 milioni di euro per giungere a due voli dimostrativi entro il biennio successivo. E qui entra in gioco la geopolitica.

Recentemente, alcuni investitori della Isar Aerospace hanno fatto pressioni per una ricollocazione della società negli Usa, paventando anche la potenziale disponibilità di basi di lancio sul suolo americano. Come ha riportato il Financial Times, il presidente dell’Associazione degli Industriali della Germania, Matthias Watcher, ha rivelato che alcune startup attive nel settore spaziale sono state avvicinate anche da investitori cinesi per avviare partnership o joint venture, poi bloccate dal governo federale. “Il fatto è che le startup spaziali tedesche sono davvero all’avanguardia mondiale”, ha ribadito Watcher, confermando come l’attenzione degli Stati Uniti verso queste realtà sia sempre più crescente. La società Morpheus Space di Dresda che produce innovativi motori elettrici a emissione di campo (tecnologia FEEP) è stata anch’essa avvicinata da investitori statunitensi. Sembra che la società americana di Venture Capitals Q-Tel, che dicono faccia riferimento alla Cia, abbia basato a Stoccarda il proprio ufficio di ricerca talenti, sinonimo di Intelligence tecnologica.

Il punto è che la potenza industriale e finanziaria, parliamo del settore spaziale, della Germania è in crescita costante da anni e appare evidente che nella strategia del governo lo Spazio sia un settore da finanziare in parallelo a quanto già si fa in ambito Esa e Commissione europea. Poiché come spiegato sopra, le attività nello Spazio non si fanno se non si dispone di un vettore di lancio e di una base, la Gran Bretagna si sta attrezzando per questo e la Germania sembra voler seguire la stessa strada. La Francia – a nostro modesto avviso – sembra essere prigioniera di quel contesto industriale legato al lanciatore Ariane creato da quarant’anni e a cui si è legata l’Italia con il lanciatore Vega. Il Trattato di Aquisgrana lega in qualche modo il blocco franco-tedesco nella Difesa, ma non sembra impedire l’emergere di nuove realtà imprenditoriale tedesche come quelle della Space Economy che nel giro di pochi anni potrebbero rivoluzionare, insieme a quelle britanniche, il panorama spaziale europeo.

Ovvio che gli Stati Uniti, la superpotenza leader nello Spazio, vogliano avere come alleati e partner industriali le altre nazioni che hanno capacità e fondi per competere nello Spazio, come vuole fare di tutta evidenza la Germania. E se non ci riesce, prova ad acquisirne il controllo con operazioni societarie. In fondo, ragionano a Washington, il budget Usa è così ampio che neanche Berlino potrà a breve competere con esso. Mentre in Europa potrà essere preminente, come già lo è infatti nell’Esa. Ecco come anche nello Spazio si manifesta in varie forme il nodo geopolitico della collocazione europea tra Usa e Cina.

In conclusione, la Space Economy potrà essere fonte di crescita e business se si disporrà, oltre alle tecnologie satellitari, anche di nuovi economici vettori e di proprie basi di lancio. Per questo americani e cinesi fanno scouting nelle start up tedesche che progettano i razzi del futuro. Infatti, i primi europei a fare Rocket Science sono stati proprio i tedeschi nel 1927 con la VfR – Vereinfür Raumschiffahrt (Società per la navigazione spaziale),- un’associazione che riuniva studenti appassionati di razzi (si potrebbe definire un’antesignana delle odierne start up) tra i quali spiccava un tal Wernher Von Braun. Senza di lui, quarant’anni dopo, la Nasa non sarebbe arrivata sulla Luna.


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