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Se facciamo sul Recovery Fund come ad Amatrice siamo morti

“L’opera di ricostruzione dei paesi distrutti – da quel sisma e da quelli che vi hanno fatto seguito in breve tempo – è incompiuta e procede con fatica, tra molte difficoltà anche di natura burocratica”. Queste parole del Presidente Mattarella certificano l’insoddisfacente stato di salute dei lavori necessari per riportare a vita normale i territori di Lazio e Abruzzo colpiti esattamente quattro anni fa dal sisma, condizione che peraltro è evidenziata da alcuni numeri assai emblematici.

Sono infatti conclusi a oggi i lavori in 17 edifici scolastici danneggiati, ma ne restano 230 su cui lavorare (con avanzamenti a vario livello), mentre su 942 interventi finanziati per la sistemazione di chiese ben 740 debbono ancora prendere il via. Se invece volgiamo lo sguardo al settore privato ecco altri numeri piuttosto impressionanti: su 14.000 domande per contributi alla ricostruzione di edifici di ogni genere (prevalentemente abitazioni) circa 8.000 sono ancora all’esame degli uffici.

Quanti ai soldi, va detto subito che girano cifre di ogni genere, partendo dai 22 miliardi stimati nel 2016 dalla Protezione Civile ai 10,5 deliberati dal Cipe (l’ultima determinazione in tal senso è la n. 54 del 2019), mentre al Fatto Quotidiano web (nel documentato approfondimento ieri pubblicato a firma di Martina Melone) risulta una cifra che se vera sarebbe semplicemente agghiacciante, poiché sarebbero di soli 200 milioni i così realmente “cantierati” in opere di competenza della Pubblica Amministrazione.

Adesso però noi siamo alla fine di agosto del 2020, quindi il punto non è soltanto capire a che punto è la ricostruzione (che comunque resta un tema rilevantissimo): dobbiamo capire come ci prepariamo all’uso della più imponente mole di fondi europei mai messa in campo nella storia Ue. Ed ecco allora emergere con tutta la sua forza la lezione che viene da quelle terre martoriate: replicandone lo schema operativo rischiamo di fare un disastro. E lo rischiamo per due motivi distinti ma capaci (nel loro combinato disposto) di chiudersi a tenaglia.

Il primo motivo è che Bruxelles finanzierà solo progetti credibili e documentati nelle tempistiche e negli effetti, secondo una logica di erogazione dei fondi che seguirà, mese dopo mese, l’avanzamento dei lavori ed il raggiungimento degli obiettivi. Non ci darà quindi risorse “a prescindere”, ma guarderà (e valuterà) in corso d’opera: più o meno l’esatto contrario di quanto abbiamo fatto in quasi tutti i percorsi di ricostruzione dopo eventi catastrofici.

Ma il secondo motivo per cui stiamo ballando sul Titanic è, se possibile, ancora più delicato da considerare. È infatti noto a tutti gli esperti veri dalla materia che gli investimenti pubblici generano una svolta importante solo se ben concentrati nel tempo, poiché se diluiti su molti lustri finiscono per sviluppare solo una poco efficace economia della sussistenza. Si pensi al caso della Germania Est post crollo del muro, che ha richiesto non meno di 2.000 miliardi di euro di contributi di Stato: gran parte di questi soldi sono stati spesi nel primo decennio, rinnovando il 65 % delle abitazioni ed eliminando il 95 % delle emissioni di anidride solforosa (la DDR ne era il primo “produttore” d’Europa).

Ebbene il rischio dell’Italia è proprio quello di fare il contrario della Germania all’inizio degli anni ‘90, cioè non riuscire a concentrare il pacchetto di investimenti possibili con il piano Next Generation Eu in un tempo breve e quindi capace di avere un effetto “shock” sull’economia e (quindi) sulla società. È un rischio enorme, anche perché si collega ad una realtà che (sottovoce) anche ad alto livello tra le massime burocrazie viene messa in evidenza: l’Europa vuole da noi progetti aggiornati e molto ben strutturati, progetti che nei cassetti dei ministeri non ci sono o, se ci sono, sono racchiusi in documenti sintetici e (quindi) capaci solo di contenere una descrizione sommaria, con riferimenti vaghi sul fronte dei costi.

Insomma oggi non è solo il giorno dell’allarme su una ricostruzione che va lenta, oggi è il giorno giusto per iniziare un percorso diverso, in assenza del quale rischiamo di fare dei prossimi anni uno dei momenti più difficili della storia recente d’Italia, perché mai come nel prossimo futuro saremo dipendenti dai soldi di Bruxelles.

E siccome abbiamo qui molto parlato di numeri, con un numero intendo finire. Il terremoto è stato quattro anni fa e da allora il governo ha nominato quattro commissari in rapida successione tra loro (Errani, De Micheli, Farabollini e, da poco Legnini). Quattro anni, quattro commissari. Vuole dire che a ogni cambio (almeno un po’) si ricomincia di capo.

Un pessimo segnale per le zone terremotate, un pessimo auspicio per la sfida sui fondi europei. A Genova siamo riusciti a fare meglio (dopo il crollo, non certo prima), speriamo serva di lezione.

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