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Il referendum del tanto peggio, tanto meglio. Cazzola non ci sta (e dice No)

Il 20 settembre (150° anniversario della Breccia di Porta Pia) mi recherò al seggio per votare No al referendum confermativo della legge costituzionale sul “taglione’’ del numero dei parlamentari. Approfitto della cortese ospitalità di Formiche.net per rendere pubblica la mia intenzione di voto, come ho già potuto fare in altre sedi.

In queste settimane, seguendo il dibattito, ho trovato molte persone della mia stessa opinione. Non mi sarei sorpreso se questa “corrente di pensiero’’, a cui mi onoro di appartenere, fosse accusata di voler riattaccare con lo scotch lo striscione che i pentastellati strapparono, festosi, in Piazza Montecitorio per celebrare l’implacabile taglio delle poltrone, conquistato pochi minuti prima col voto del 97% dei deputati presenti. Non essendo un frequentatore dei social forse non sono beninformato, ma mi è sembrato che Luigi Di Maio abbia fatto tesoro dell’esperienza di Matteo Renzi nel 2016 e stia attento a non mettere la faccia sull’esito del voto referendario.

Quando si fanno questi errori può succedere che l’elettorato se ne freghi dei contenuti e voti soltanto per dare una lezione a un leader che ha deluso. Del resto, Di Maio è tanto sicuro della vittoria del Sì da lasciare che le cose seguano l’onda. Paradossalmente, i più combattivi nel dibattito sono i sostenitori del Sì che pur si proclamano avversari dei “populisti’’; e sono proprio loro i più accaniti critici di quanti sono schierati per il No. La loro linea è la seguente: “Guai a lasciare una battaglia riformista ai populisti’’, che l’hanno promossa. Secondo quest’ analisi, la riduzione dei parlamentari è stata prevista in tutti i tentativi di riforma costituzionale del dopoguerra, sia che si trattasse di una proposta che non riuscì ad andare oltre i lavori di una delle tante Commissioni bicamerali incaricate, sia che fosse contenuta in una legge che, pur superando in Parlamento i vincoli procedurali disposti a salvaguardia di una Costituzione rigida, era stata bocciata dall’elettorato (come accadde nel 2006 e dieci anni dopo). Certo, anche i “compagni di viaggio’’ degli sfasciacarrozze riconoscono che dopo il “taglio’’ saranno necessari dei correttivi di adeguamento, senza i quali un’operazione che loro giudicano muoversi nel senso giusto rischierebbe di destabilizzare il sistema.

Ma intanto – proclamano – che è opportuno compiere un primo passo (benché, per ora, sospeso nel vuoto). Da dove ricavino una granitica fiducia sul completamento del disegno che hanno in testa, rimane un mistero. Anzi un’avventura, vista l’instabilità truffaldina del M5S. Eppure con una sicumera degna di miglior causa, i teorici di una “riforma possibile’’, anche se “a pezzi’’ (e a rischio di mandare “in pezzi’’ il sistema politico) accusano i sostenitori del No di “pedanteria’’, di essere delle “anime belle’’, di non capire che i veri riformisti hanno il dovere di sporcarsi le mani e, sostanzialmente, di fare il gioco dei populisti, dal momento che è scontata la vittoria del Sì, tanto che ad opporsi si salverebbe a malapena la coscienza. Non si rendono conto che la loro linea fornisce una copertura culturale e politica, generosa e gratuita, ai “tagliatori di teste’’; a meno che non si illudano di “romanizzare i barbari’’ ovvero di qualificare con la loro presenza e i loro argomenti una volgare provocazione antipolitica. Se la legge troverà conferma sarà questa la sua chiave di lettura. Forse i “nostri dalle mani sporche’’ non conoscono la storiella di quel soldato che comunica, via radio, al comando, di aver fatto 50 prigionieri tra i nemici.

Al capitano che lo elogia e gli ordina di venire subito a consegnarli, il soldato, eroe mancato, risponde seraficamente: ‘‘Loro non mi lasciano venire’’. Oltre a qualche senatore/costituzionalista che passa le ore, a Palazzo Madama, a immaginare modellini di riforma, come se dovesse vendere lamette da barba al mercato, i militanti del “Sì buono’’ sono in generale dei superstiti della sconfitta del 4 dicembre 2016 sulla riforma Renzi-Boschi. E ancora rimpiangono quell’insuccesso accusando chi – da riformista, era contrario anche allora – di aver perso la partita della vita. Secondo loro, il Covid-19 che affligge le istituzioni e la governabilità sta nel bicameralismo perfetto. Per questo motivo la “grandeur’’ della riforma (ammazza) Renzi derivava in prevalenza dalla trasformazione del Senato in una sorta di dopolavoro/ferrovieri per governatori e sindaci in trasferta. Che cosa abbia da spartire quella impostazione, bocciata dagli elettori, con la “legge del taglione’’ (che conserva un bicameralismo perfetto, ma amputato) qualcuno dovrebbe spiegarlo.

Singolare è la tesi sostenuta dal prof. Carlo Fusaro in un lungo articolo su il Foglio in cui critica “l’ipocrisia del No’’. Dopo aver esposto quelle che a suo avviso sono le ragioni storiche, politiche e funzionali per dare il via alla riforma, Fusaro riconosce che il nuovo assetto eliminerebbe i “residui elementi di differenziazione fra due Camere gemelle’’, in conseguenza dell’unificazione dei requisiti anagrafici dell’elettorato. Si arriverebbe in sostanza “ad una sorta di bicameralismo assoluto” cioè ad un Parlamento composto da due Camere del tutto identiche. Se è questo il giudizio conclusivo di un “grande elettore’’ del Sì, quale sarebbe l’utilità della riforma? Fusaro risponde così:

“È legittimo sperare che un Parlamento di questo genere, costruito a ben vedere solo ed esclusivamente per rallentare i processi decisionali e indebolire il rapporto governo-Parlamento, finirà col risultare in tutta evidenza, rilanciando il tema delle riforme politico-istituzionali, quelle davvero incisive’’. Nel frattempo emergerà, secondo Fusaro, “l’assurdità e la strutturale inefficienza di un Parlamento di questo genere’’. Per riassumere il concetto: il Paese deve farsi ancora più male per decidersi a curarsi.

La solita logica – per nulla riformista – del “tanto peggio, tanto meglio’’. Se questo è l’obiettivo dei militanti del Sì, si assumono pure tutta la (ir)responsabilità di sfasciare il Paese per poterlo ricostruire a modo loro. Quelli che votano No lo fanno seguendo un principio: “Non è necessario avere la sicurezza di vincere per continuare a combattere’’. A noi interessa conseguire il miglior risultato possibile, per dimostrare l’esistenza di una parte del Paese che rifiuta di arrendersi.

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