L’intelligence americana starebbe tendendo sotto stretto monitoraggio l’Arabia Saudita, colpevole in questo caso di contatti troppo approfonditi con la Cina per lo sviluppo dell’arricchimento di uranio fino a un punto che potrebbe portarla verso la fase militare. L‘informazione che rivela il New York Times attraverso funzionari americani anonimi fotografa la sovrapposizione di due linee rosse certe per Washington. La prima: nessuno nella regione mediorientale deve avere un vantaggio militare strategico come l’arma atomica, che potrebbe rendere il quadrante egemonizzabile. Fa eccezione la cortina fumogena israeliana, ma è evidente che il principio profondo che porta gli Stati Uniti a scontrarsi con l’Iran sul nucleare, valga anche per Riad. Tanto più, e qui siamo sulla seconda linea, se chi pensa all’arma atomica lo faccia — da alleato Usa — in partnership o cooperazione con la Cina. Pechino è il nemico strategico globale che secondo il pensiero statunitense non può ovviamente avere i codici dei missili sauditi, ossia non può essere il facilitatore di uno sviluppo così cruciale in una regione che Washington vorrebbe mantenere nello status quo per agevolarsi un controllo da remoto.
I funzionari dicono al team di tre super-giornalisti del Nyt che firma l’articolo: “gli sforzi” sauditi sono ancora in fase preliminare. Ma tanto basta. Val la pena ricordare che il policy-maker del regno, il principe ereditario Mohammed bin Salman, già due anni fa aveva evocato la possibilità di dotarsi della Bomba se l’Iran avesse continuato col suo programma nucleare — tecnicamente congelato dall’accordo Jcpoa del 2015; su cui le agenzie internazionali hanno certificato il rispetto da parte di Teheran; da cui l’amministrazione Trump s’è ritirata unilateralmente; e che la Repubblica islamica ha attualmente messo in violazione limitata controllata secondo termini inseriti nell’intesa (che con l’uscita americana ha ormai validità molto relativa). L’operazione di rendere pubblici gli interessi sauditi (non nuova) è iniziata già la scorsa settimana, quando l‘House Intelligence Committee, guidato dai Democratici, ha chiesto che nella legge che giustifica il budget che il Congresso stanzia per i servizi segreti venisse allegato un report del 2015 in cui la Cia dettagliava gli interessi di Riad per un programma nucleare militare in cooperazione con “altri paesi come Cina e Russia”. Martedì è stato il Wall Street Journal a pubblicare le preoccupazioni anonime di funzionari americani (dell’intelligence) su un impianto, isolato e nascosto nel deserto saudita di nord-ovest, che starebbe lavorando per ottenere uranio yellowcake — una forma del minerale di uranio altamente concentrato che permette di arrivare, dopo molti step, anche agli arricchimenti di livello militare.
Un altro aspetto interessante oltre la strategia esterna, riguarda il quadro interno agli Usa. Serve seguire l’origine di queste recenti rivelazioni per dettagliarlo. Tutto esce da intelligence e Congresso, a cui si somma una dichiarazione ottenuta dal Nyt dove il dipartimento di Stato scrive che “sistematicamente tutti i nostri partner [vengono avvertiti] sui pericoli legati ad impegnarsi sul business nucleare civile con la Repubblica popolare cinese” e che “siamo contrari alla diffusione dell’arricchimento e del ritrattamento” e che gli Stati Uniti “attribuiranno grande importanza” al costante rispetto da parte dei sauditi del trattato di non proliferazione nucleare. Qualcosa su cui a Washington si sta lavorando da anni, e forse per questo Riad s’è spostata verso Pechino: per ottenere ciò che gli americani non sembrano intenzionati a permettere. In questo torna evidente la differenza di trattamento che gli apparati statunitensi riservano a Riad rispetto al filo diretto della Casa Bianca. Mentre lo Studio Ovale ha attaccato la Cina su molti fronti, non ha mai parlato di queste attività con i sauditi — così come non ha troppo denunciato le azioni in Yemen o l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi da parte di una squadraccia dei servizi sauditi (in missione in Turchia). Sembra che si evitino certi argomenti, per non creare problematiche a un ottimo cliente. Capitol Hill, come Cia, Pentagono e dipartimento di Stato fanno l’opposto, e sembra che certe sottolineature arrivino quasi per ripicca. Gli apparati americani hanno sempre avuto relazioni organiche con i sauditi, composte dal dialogo diretto tra strutture. Un approccio rivoluzionato da Donald Trump che ha impostato rapporti direttissimo con bin Salman, tramite il genero-in-chief Jared Kushner. Questo modo di relazionarsi non è molto apprezzato da quegli organismi dello stato profondo dove il pensiero travalica quello dei presidenti che passano. Motivo: perché li scavalca. E non è la prima volta che in certi casi è la stessa intelligence a far uscire particolari imbarazzanti dimostrando su questo, come su altri fascicoli, un non perfetto allineamento con i costumi dell’attuale Casa Bianca.