Non poche volte i pronunciamenti dei giudici suscitano polemiche ed accese contrapposizioni, altre volte indignazione e spesso rassegnazione. L’ultima querelle di grande risonanza, dopo una lunga serie, è sorta sul provvedimento del Tar della Sicilia che ha sospeso la chiusura degli hotspot dove sono accolti gli immigrati clandestini. Al di là del merito della specifica questione, l’opinione pubblica è colpita da diversi aspetti dell’esercizio della giustizia che lasciano la società e l’economia profondamente insoddisfatti e ne condizionano i comportamenti in senso non favorevole a uno sviluppo stabile verso una maggiore prosperità. Dei mali della giustizia si è dibattuto a lungo, ma poco si è detto su cosa pensino le imprese e le famiglie della classe magistratuale, né quest’ultima si è interrogata sulle loro opinioni.
A gettar luce su questo aspetto ha contribuito di recente un’indagine di opinione condotta da un’istituzione europea, Eurobarometer, all’inizio dell’anno e pubblicata nel luglio scorso. A un campione rappresentativo di 6807 imprenditori e di 26.578 cittadini di tutti i paesi dell’Unione europea sono state poste domande sull’indipendenza dei giudici e delle corti dai governi e dai politici, nonché da pressioni provenienti da interessi economici o di altro genere. Si è chiesto anche se lo status e la posizione dei giudici garantiscano a sufficienza la loro autonomia di giudizio. Il quadro, che ne risulta, dà conto dei dubbi che albergano tra le imprese e i cittadini sull’operato dei giudici e sulla loro posizione, e come il Paese si distanzi molto da quanto riscontrato in altri paesi membri più sviluppati economicamente e socialmente.
Il dato riassuntivo delle opinioni colloca l’Italia al quintultimo posto tra i 28 paesi dell’Ue per percentuale di giudizi soddisfacenti sull’indipendenza espressi dalle imprese, davanti a quattro paesi dell’Est europeo, nell’ordine Polonia, Ungheria, Croazia e Slovacchia. Soltanto il 3% delle imprese la giudica “ottima” e un terzo “abbastanza buona”, ma ben il 49% ne dà una valutazione negativa o pessima. La distanza dalle impressioni negli altri paesi non potrebbe essere più evidente, laddove si consideri che nella media dell’Ue la maggioranza (54%) manifesta fiducia nell’indipendenza dei propri magistrati, e solo il 31% è insoddisfatto. Altro aspetto meritevole di attenzione è l’assenza nell’ultimo quadriennio di una stabile tendenza all’allargamento della quota dei giudizi positivi in Italia, come invece si osserva nella media dell’Ue, perché miglioramenti e peggioramenti si sono susseguiti di anno in anno.
Scendendo nei particolari delle valutazioni positive, la netta maggioranza delle imprese (82%) le attribuisce alla posizione giuridica e sociale dei giudici, posizionandosi al di sopra della media europea, mentre pesa meno la quota di coloro che la attribuiscono alla estraneità da interessi economici o particolari, e ancor meno pesano quanti si riferiscono alla impermeabilità a interferenze del governo o di politici, un gruppo che tende a ridursi nell’ultimo quadriennio. In termini più semplici, l’impressione di indipendenza dei magistrati è attribuita più al loro status che alla loro resistenza alle pressioni dell’economia e della politica. Il riscontro si ritrova analizzando i fattori che spiegano i giudizi negativi. Per la stragrande maggioranza delle imprese (84%), l’impressione negativa è dovuta alle interferenze o pressioni del governo o dei politici; per una quota altrettanto elevata (83%) è imputabile a particolari interessi economici o di altra natura, mentre solo il 56% ritiene che lo status di giudici non garantisca a sufficienza la loro indipendenza.
Tra i mille cittadini italiani intervistati le impressioni risultano ancor più negative che tra le imprese. Soltanto il 31% si pronuncia favorevolmente sull’esistenza dell’indipendenza della giustizia, laddove la maggioranza (54%) ha una impressione negativa. Anche tra i cittadini la maggioranza (82%) ritiene che lo status dei giudici garantisca adeguatamente la loro indipendenza, ma solo il 51% li ritiene esenti da pressioni di interessi economici e meno della metà (48%) pensano che siano al riparo da interferenze o pressioni del governo e dei politici. In particolare, i giudizi negativi sono attribuiti prevalentemente all’influenza del governo, nonché di interessi politici ed economici.
Ma come ha reagito la magistratura a questa immagine sfavorevole maturata da tempo nelle menti di troppi italiani? Negli ultimi anni qualche provvedimento è stato preso dagli stessi magistrati verso alcuni componenti di fronte a evidenti comportamenti da biasimare o sanzionare, ma nulla più, e certamente un’azione ben lontana dal rendere la loro immagine più accettabile. Non tutta la responsabilità delle disfunzioni della giustizia è tuttavia ascrivibile ai giudici. Non poche sono da ricondurre al potere legislativo: norme spesso poco chiare, non coerenti con le esigenze dello sviluppo economico e sociale, vaghe nell’applicazione, con molta latitudine lasciata al giudizio dei magistrati di fronte all’incapacità del parlamento di fare scelte nitide ed agevoli da applicare.
Una parte della responsabilità, tuttavia, ricade sulla classe magistratuale, sui tempi lunghi del rendere giustizia, sulla conduzione delle istruttorie, sulla scarsa corrispondenza con cui il suo giudizio collima col pubblico sentire entro i limiti consentiti dalle norme e sull’astrusità delle sentenze che giustificano o lasciano spazio a prolungamenti del giudizio. I tempi, i costi e i modi della giustizia italiana pongono il Paese in una posizione di svantaggio rispetto ai maggiori partner: sono comparativamente molto più onerosi di altri paesi, come dicono le rilevazioni della Banca Mondiale e di altre organizzazioni, incidono negativamente sulle attività economiche e finanziarie, lasciano adito a comportamenti predatori o opportunistici, e tendono a frenare gli investimenti e la produttività, come si è visto nell’ultimo ventennio.
Di tutto questo, verso chi deve rispondere la magistratura? Nella nostra democrazia il governo risponde al Parlamento e alla giustizia, il Parlamento risponde all’elettorato e alla giustizia, ma la magistratura risponde a sé stessa e a nessun altro. Questo è il frutto di una malintesa applicazione del principio della separazione dei poteri nello stato democratico. Si è venuta, quindi, a creare nel tempo una classe di intoccabili ed insindacabili; qualcuno parla di una vera casta. Ebbene un ripensamento a fondo del sistema magistratuale è opportuno per migliorarne l’immagine, a cominciare dal reclutamento alla verifica della sua performance.
Giudicare implica maturità di giudizio e conoscenza basata sull’esperienza del vivere in società e dei meccanismi del suo produrre, investire, consumare e fare ricerca ed innovazione. Invece, i nostri magistrati maturano in un mondo chiuso in cui i contatti con lo spettro del vivere sono prevalentemente limitati alle fattispecie giudiziarie e in cui scarseggia la capacità di porsi nei panni del comune cittadino o impresa che si trova alle prese col vivere quotidiano e con il mercato aperto. Si diventa magistrati solo per la capacità di dominare la selva di norme in cui il Paese si è smarrito, senza uno scrutinio delle sue esperienze nella vita sociale, della sua partecipazione al mondo del lavoro privato, della sua dirittura morale, della sua equanimità. Alcuni paesi hanno deciso di superare questi limiti affiancando al giudice togato in ogni grado di giudizio un rappresentante della società che partecipa al giudizio su un piano di parità. Questo rappresentante è eletto da popolo e scelto in un elenco di soggetti che hanno grande esperienza e sapere, indipendentemente dal diritto. Nella nostra democrazia si è finora rifiutato questo approccio adducendo il rischio di distorsioni. Ma già oggi la tanto vantata indipendenza della magistratura non resiste ai diffusi sentimenti popolari di segno contrario.
Non è quindi il caso di ripensare il nostro sistema magistratuale ed avvicinare il popolo alla funzione della giustizia scegliendone i rappresentanti in una schiera di esperti ed inappuntabili cittadini che affianchino i giudici di carriera nel giudicare? Non è questa l’essenza della democrazia in cui la fonte del potere sta nelle mani del popolo?