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Sanità, perché bisogna dare più valore al made in Italy

Di Fabrizio Landi
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Uno degli elementi che più ha colpito nei frangenti peggiori dell’epidemia da Covid-19 è stata la mancanza di prodotti spesso semplici ma essenziali per combattere in prima linea e nelle retrovie territoriali la pandemia: mascherine, reagenti per tamponi, ventilatori, vesti di protezione per gli operatori, tanto per citarne alcuni. È evidente che queste carenze hanno influenzato negativamente, alzando a dismisura il rischio della diffusione della malattia fra i sanitari e reso molto più difficile la gestione dei pazienti sia gravi sia con patologia limitata.

Le mascherine ormai da anni non erano più prodotte in Italia per il semplice motivo che le gare di acquisto al massimo ribasso (a novembre 2019 alcune Asl hanno comprato mascherine ancora a 8 centesimi: pensate a quanto pagato in questi mesi per le stesse) hanno allontanato i produttori dall’Italia, con outsourcing al 100% nell’est asiatico e in Europa orientale. Oggi si sta ricreando una base di manifattura in Italia, ma quanto è costata al Paese negli scorsi mesi questa situazione?

L’acquisto al massimo ribasso, così come il crescente sottofinanziamento del Sistema sanitario nazionale (Ssn), con le continue politiche di taglio, sono alla base dell’aumentata debolezza della base manifatturiera in Italia ed Europa dei prodotti per la salute, per ora fortunatamente limitata ad alcuni segmenti, ma con una tendenza continua alla delocalizzazione specie verso l’Asia: nel farmaceutico, storico segmento di eccellenza della produzione italiana, il problema sta crescendo per i cosiddetti principi attivi (le materie prime per fare farmaci) sempre più localizzati in Cina e India (da questi due Paesi arriva oramai quasi il 50% delle necessità mondiali), con il rischio di essere un giorno schiavi dei semilavorati di origine asiatica, incapaci di produrre per mancanza di quest’ultimi.

Bisogna fermare questo processo che oltre alla manifattura pone anche a rischio gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) di nuove soluzioni diagnostiche e terapeutiche: è un modello sbagliato pensare che basti mantenere nei nostri Paesi, cosiddetti avanzati, i soli processi ad alto valore aggiunto, come la R&S, delocalizzando tutti i processi di produzione nelle aree a basso costo del lavoro. I risparmi che si possono ottenere li pagheremo nei frangenti delle grandi transizioni e crisi sanitarie dovute ai fenomeni di emergenza globale, come dimostrato in Europa e non solo, dalle vicende del Covid-19, nel primo semestre 2020.

Dobbiamo, quindi, come Paese e, se c’è, come Europa, ripensare alla base il modello allargato di sanità: non si può separare in qualunque visione del Sistema sanitario quest’ultimo dall’industria che ne risolve i bisogni, producendo gli strumenti per far operare con successo i sanitari. Ogni approccio a spendere in sanità il meno possibile, ignorando le conseguenze sul settore industriale che genera i prodotti necessari all’attività sanitaria, è un errore storico che potrebbe portarci a baratri come quelli appena vissuti.

Bisogna ripensare la logica degli acquisti di beni e servizi, dando più valore alla qualità che non al solo costo, riservando quote degli acquisti ai prodotti made in Italy e forse in Europe (come avviene ad esempio in Cina), supportando in modo decisivo i processi di innovazione tecnologica della manifattura del settore (investimenti pubblici diretti o indiretti, tesi a promuovere l’eccellenza ed efficienza delle produzioni e a scoraggiare processi di delocalizzazione).

È compito costituzionale in Italia e nella stragrande maggioranza dei Paesi europei, garantire ai cittadini la salute nel senso più ampio del termine: non è pensabile che questo dettato tendenzialmente universale sia affrontato dalle istituzioni nazionali e comunitarie senza avere ben chiaro il tutt’uno che il processo di salute allargato rappresenta. Tutt’uno che parte dall’opera dei sanitari e dei ricercatori che studiano soluzioni ai bisogni clinici dei pazienti ma che, poi, passa necessariamente per la qualità delle strutture a disposizione e per la loro efficacia e, soprattutto, la disponibilità di prodotti e servizi adeguati che solo un’industria attiva e propositiva può fornire e supportare.



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