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Perché la sinistra ha fallito? Un libro a più voci

La fine della sinistra in Italia ed in Europa ha avuto inizio con il tramonto del sovietismo, la caduta del comunismo e la demolizione del Muro di Berlino. Da circa trent’anni essa è andata consumandosi in tentativi, a volte velleitari, altre volte patetici, di rimettersi in sesto e riconquistare quelle masse di elettori che anno dopo anno andava perdendo. Ha mutato ragione sociale, stilemi politici e propagandistici, ha sostanzialmente rinnegato la propria ideologia senza sostituirla con nulla che in qualche modo potesse assomigliarle, ma legandosi mani e piedi ad un liberismo e ad un libertarismo che ne hanno segnato il tramonto irreversibile.

Era il mondo dei diseredati che rappresentava ed è diventata, quasi senza accorge e, integrandosi nel sistema a puro fine di potere, trasformandosi in “parlamentarista” e “Governativa”, una congregazione laicista radical chic nella quale si sono trovati più capitalisti che operai, o comunque epigoni del Quarto Stato. Il suo modus operandi è progressivamente scivolato nelle secche di un conformismo privo di progettualità alternativo quando è stata all’opposizione e stanco trasformismo benpensante, quando è stata al governo, naturalmente piegato sulle comode ambizioni di una borghesia senz’anima per la quale la destra non era abbastanza à la page, e perciò ha dato “ricovero” a tutti gli orfani del comunismo, del socialismo, dell’azionismo e del radicalismo ateo, relativista e materialista.

sinistra fallito_libroLa sinistra, sostanzialmente, è morta quando ha rinunciato ad essere se stessa. Per quanto censurabile ideologicamente e incongrua sotto il profilo della prassi politica, rappresentava un bacino elettorale di tutto rispetto tanto da far temere, almeno in Italia, il peggio, sia nell’immediato dopoguerra che negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, egemonizzata dal più forte, coeso, esteso e dinamico Partito comunista d’Occidente. Attorno ad esso la sinistra, variegata e contraddittoria, litigiosa, di governo e di alternativa al sistema, riusciva comunque ad avere un senso politico. I partiti che la rappresentavano erano i satelliti attorno al “pianeta rosso” per eccellenza che anche quando giravano all’incontrario non si staccavano dall’orbita rotante. Finito il comunista ha sinistra ha vissuto di espedienti politici ingenui e comunque non qualificabili, in termini socio-culturali, legati o derivati dalla sua tradizione storica.

L’esperienza dell’Ulivo, guidata da Romano Prodi, e la nascita stessa del Partito dei Democratici di sinistra, hanno segnato il tramonto dell’identità della sinistra italiana in una mescolanza politica la cui sostanza è stato il catto-comunismo, impastato ad altre aggregazioni minori, i cosiddetti “cespugli”, che solo per comodità elettorale si ritrovavano insieme a soggetti che nulla avevano a che fare gli uni con gli altri, tenuti insieme da un ridicolo antifascismo d’antan e dalla conversione alla globalizzazione liberista della quale gli epigoni del Pci sono stati e sono i più strenui e tenaci sostenitori anche a fronte delle vere e proprie catastrofi economiche e sociali che la cosiddetta interdipendenza mondialista ha provocato.

Così, all’internazionalismo social-comunista si è sostituito il globalismo neo-capitalista la cui risorsa è nell’indifferentismo morale e culturale che supporta ogni forma di egualitarismo e offre sostegno ai movimenti che praticano aborto, eutanasia, omosessualità, ideologia gender, unioni di fatto, esperimenti genetici ai limiti, se non ben oltre, della ragionevolezza come la fecondazione eterologa e perfino la robotizzazione quale estremo traguardo della modernità.

La sinistra ha abbandonato il suo mondo, dunque, fatto di diseredati, bisognosi, marginali, piccoli borghesi, salariati dell’industria e braccianti o, per restare all’oggi, schiavi del computer e dei call center per dedicarsi all’evoluzione sociale di modelli di vita estranei alla cultura nella quale per oltre un secolo ha affondato le sue radici ed ha legittimato la sua non trascurabile presenza sullo scenario politico italiano ed europeo.

Il relativismo che la sinistra coltiva, sostanzialmente è la ragione su. II si fonda della condanna che riceve dal suo elettorato. Infatti, le comunità di riferimento l’hanno da tempo abbandonata proprio perché, al di là delle deficienze politiche nell’interpretare i movimenti sociali e culturali contemporanei, ha perduto la sintonia con i ceti ed i blocchi sociali nei quali s’identificava.

Immaginare oggi una vecchia sezione comunista o socialista nella quale si discuta di tematiche come quelle citate invece che di nuove povertà, di bisogni primari, di diritti umani e di diritti dei popoli, dell’autodeterminazione e delle fallaci ricette del capitalismo, del rampantismo di una partitocrazia che è solo potere, è fantascienza. Venuto meno Marx, uno dopo l’altro sono stati dimenticati tutti i “padroni del pensiero” ai quali la sinistra si è riferita. Tranne uno: l’egualitarismo radicale che di conseguenza nega anche i valori religiosi, il merito individuale, la capacità delle comunità di conservare tradizioni, usi e costumi.

La sinistra si è impiccata per disperazione. Constatato il fallimento della “società aperta” della quale essa stessa si è sentita parte integrante, ha cercato, senza riuscirci, di reinventare un nuovo welfare state , le cui conseguenze sono state l’inimicizia dichiarata dei ceti medi che pur avevano simpatie per la sinistra e i più poveri, magari impiegati dello Stato, pensionati, “esclusi” da quella che una volta veniva definita “società affluente”. La globalizzazione, scambiata come la modernizzazione dell’internazionalismo teorizzato nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, è stato il veleno che ha giorno dopo giorno ha ucciso la sinistra, ovunque.

Qualcuno in Occidente ha tentato di imitare il modello cinese, quello dell’economia socialista di mercato, un ossimoro bell’e buono, ma non ha capito che soltanto in un sistema totalitario, dove i mezzi di produzione sono ferreamente posseduti dall’apparato statale e la loro gestione delegata ad oligarchi legati al partito unico, le cui ricchezze sono immense e non sempre quantificabili, il modello inventato da Deng Xiaoping e portato alle estreme conseguenza da Xi Jinping, è possibile praticarlo. Esempio lampante: i proprietari delle società calcistiche che investono, per conto del governo comunista, ingenti risorse nel l’acquistare campioni di tutto il mondo, in via collaterale ad altre redditizie attività i cui ricavi vengono investiti nelle attività sportive a maggior gloria del Partito comunista cinese, sono i beneficiari di questa rivoluzione economico-politica della quale beneficia una parte minoritaria della popolazione che vive benissimo, mentre il resto se non deve proprio cavarsela con la classica scodella di riso di una volta, poco ci manca. Il pauperismo cinese è figlio della globalizzazione della quale Pechino muove i fili, profittando di un sistema rigido e pervasivo che non ammette il dissenso.

Il comunismo che si fa turbo-capitalismo, che diventa colonialista appropriandosi, attraverso un’espansione tecnologica illimitata, di aree del Pianeta enormi e dunque acquisendo in blocco governi in particolare africani ed asiatici, per attuare i suoi scopi, è quanto di più imperialista si sia mai visto. Non risulta che la sinistra europea abbia mai censurato la Cina, né il suo sistema economico-sociale, né tantomeno la politica repressiva che attua spregiudicatamente in casa e fuori dai confini. Né che si sia opposta al demenziale (per l’Italia) progetto di Via della Seta, stipulato con il gioveranno Conte: una strada per penetrare nel cuore dell’Europa e tenere in scacco, al momento opportuno, l’Italia. Si pensi, poi, al Tibet, allo sterminio degli Uiguri, alla limitazione della libertà ad Hong Kong, alle continue minacce a Taiwan, alle ingenti forniture di armi ai governi amici, soprattutto nell’Africa sud-orientale, per combattere le contestazioni e si avrà un quadro piuttosto completo di come viene usato il capitalismo da una potenza comunista: sembra paradossale, ma non lo è.

La sinistra è insolente in Italia quando si fa paladina di un’Unione europea i cui presupposti sociali contraddicono in radice la sua ispirazione storica. E dell’Europa si fa scudo soltanto polemicamente nei confronti dei cosiddetti euroscettici, non perché creda sul serio all’integrazione continentale sostenuta con vigore da forze laiciste, liberal-democratiche, massoniche che con la sinistra spartiscono soltanto l’insana passione per la “diversità”, per la scristianizzazione del Continente, per la morte delle identità europee sul patibolo della modernità.

Quando tutto questo, cioè a dire il crepuscolo della sinistra, è incominciato? Dopo il 9 novembre 1989. All’annuncio del responsabile delle pubbliche relazioni della Sed, il partito comunista della Germania Orientale, Günther Schrabowski, che rendeva noto che i cittadini della DDR potevano liberamente recarsi nella Germania federale, e sostanzialmente cessava così di esistere la frontiera più lugubre ed inumana del mondo, Achille Occhetto, allora segretario del Pci, non perse tempo ed il 12 di novembre agli ex-partigiani della Bolognina, la sezione più gloriosa della città capofila del comunismo italiano, Bologna, disse che dai fatti nuovi dell’Est, “dobbiamo trarre l’incitamento a non continuare su vecchie strade, ma ad inventarne di nuove per unificare le forze del progresso. Dal momento che la fantasia politica di questo fine ‘89 sta galoppando, nei fatti è necessario andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato nella resistenza”.

Una menzogna colossale dalla quale prese origine il declino del comunismo italiano e della sinistra. Non era una vittoria che si celebrava, ma una sconfitta. Occhetto avrebbe dovuto dire la verità. Ma la verità nell’etica comunista non è mai stata contemplata. Tranne in una occasione, quando Lenin diede il nome alla testata ufficiale del Partito: Pravda, che vuol dire appunto Verità, dalle cui colonne produrre propaganda bugiarda.

Davanti alla prospettiva di avviare la “fase costituente” prospettata da Occhetto, che significava l’azzeramento del vecchio Pci, i segni della “dissoluzione” si fecero evidenti. Il 20 novembre, al Comitato centrale del Partito, il segretario disse: “L’esigenza di una riorganizzazione complessiva della sinistra scaturisce dalle modificazioni del mondo che mutano i termini entro i quali si è sviluppata la politica su scala mondiale; dalla crisi delle vecchie idee della sinistra dinanzi al manifestarsi di nuove contraddizioni che mettono in campo nuovi soggetti, nuove idealità e obiettivi di trasformazione; dalla esigenza in Italia, di dar vita ad un nuovo sistema politico che muova nella direzione dell’alternativa. In pochi anni tutto può essere messo in discussione, e la nostra iniziativa può cambiare profondamente il panorama politico italiano…. Al nostro congresso abbiamo colto i segni della fine di un’epoca. L’epoca dei blocchi, della guerra fredda, dei sistemi contrapposti. E abbiamo individuato nel processo democratico, di progressiva democratizzazione delle nostre società, dei diversi assetti sociali, dei rapporti tra i popoli e gli Stati l’unica via che può consentirci di affrontare la situazione presente, e di avvicinarci a quell’idea di governo mondiale che sempre più sembra divenire oggi l’unico possibile ideale storico concreto”.

Le parole di Occhetto segnarono il de profundis del comunismo. Non indicò prospettive. Non si azzardò ad inerpicarsi sulle vette ideologiche da cui guardare più vasti orizzonti. Si limitò comunque a sottolineare una cosa molto importante: la necessità di un governo mondiale.

Nell’idea del governo mondiale la sinistra si scavò dapprima una tana, poi la tomba. Sotterraneamente scoprì che quel mondo non era il suo mondo, tuttavia vi si adattò e fece dell’internazionalismo comunista il passe partout per penetrare nel mondo dei balocchi liberal-democratico e liberista. Svendeva un patrimonio culturale e politico all’ideologia mondialista, senza neppure iscriversi al Bildberg Club o alla Trilaterale. L’economista Alan Friedman, definì Occhetto come il leader politico italiano più vicino allo spirito del neo-capitalismo del quale sembrava aver accettato l’ineluttabilità del dominio e le lusinghe connesse.

Dalla “discontinuità” vagheggiata da Occhetto e condivisa dal gruppo dirigente del Pci – poi Pds, quindi Ds, infine Pd – ricavò sconfitte elettorali e discredito pubblico. Il grande patrimonio si assottigliò nelle elezioni del 1992, mentre nel 1994 subì una disfatta che la sua “gioiosa macchina da guerra” non avrebbe mai più dimenticato. Solo nel 1996, un non comunista, Romano Prodi, accettando di capeggiare la coalizione formata da ex-comunisti ed ex-democristiani, al culmine del disfacimento del sistema della Prima Repubblica, riuscì a vincere le elezioni. Ma durò poco. Furono proprio i post- comunisti a disarcionarlo dichiarando così la fine della sinistra di governo, in una sorta di orgia del potere dalla quale uscirono vincitori prima Massimo D’Alema e poi Giuliano Amato. Una faida di sinistra in piena regola.

Da allora la prospettiva del vuoto si è impossessata della “sinistra diffusa” italiana. E cerca occasioni. Che naturalmente non trova. E nell’impossibilità di creare una nuova identità si allea con populisti di quart’ordine come il Movimento Cinque Stelle, avventizi raccolti qua e là, gruppetti ondivaghi “riserve” per le “mitiche” primarie, un’altra invenzione che ha rivelato negli anni il vuoto della sinistra.

La sinistra vive un gramo presente, avrebbe detto uno dei suoi guru che le giovani generazioni neppure conoscono, György Lukàcs. Tutti coloro che vi militano, in qualche modo, considerano il socialismo una sorta di “cane morto”, per dirla ancora con il filosofo ungherese. Essa, la sinistra italiana ed europea, non è più niente. Non è neppure ecologista, tanto che i movimenti che si rifanno alla tutela dell’ambiente non si riconoscono, dopo una lunga stagione di convivenza, in essa.

Una sinistra che non ricominci a pensare a che cosa è stata e che cosa dovrebbe essere, che non rimetta al centro la sua antica anima, non può esistere. Al massimo può aspirare ad un ruolo ancillare del capitalismo, strepitando ogni tanto per qualche cosiddetto “diritto civile” di cui né il vecchio proletariato (se esiste ancora), né i ceti medi arrabbiati sembra che siano sensibili quando manca il lavoro, i salari diminuiscono, le certezze sociali sono state abrogate e la vita diventa molto più insopportabile per chi ha poco o niente e deve elemosinare redditi o pensioni di cittadinanza che non risolveranno nessun problema continuando a depredare le risorse pubbliche.

La sinistra è morta. Ma continuiamo a chiamare così quei residui che siedono da quella parte dell’emiciclo delle assemblee parlamentare. Nella società italiana non la riconosce più nessuno. Al punto che nei quartieri benestanti delle grandi città votano per essa, nelle grandi aree periferiche per la destra o il centrodestra. Un’inversione di tendenza che spiega perché la sinistra è finita tra i rottami della storia.

“La Sinistra ha fallito?” è il nuovo libro pubblicato dall’editore Solfanelli (pp. 160, € 12,00) a cura e con introduzione di Italo Inglese. E’ un volume collettaneo con i contributi di Adalberto Baldoni – Eugenio Balsamo – Mario Bernardi Guardi – Mario Bozzi Sentieri – Giuseppe Brienza – Rino Cammilleri – Luigi Copertino – Giuseppe Del Ninno – Gianfranco de Turris – Dalmazio Frau – Luciano Garibaldi – Francesco Giubilei – Marco Iacona – Luciano Lanna – Andrea Marcigliano – Gennaro Malgieri – Luca Pignataro – Andrea Scarabelli – Fabio Torriero – Marcello Veneziani. La postfazione è di Riccardo Cristiano.

 

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