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Sorpresa, il prof. Caligiuri vota per il taglio dei parlamentari. E spiega perché

I punti di vista favorevoli o contrari alla riduzione di deputati e senatori sono entrambi legittimi e meritevoli di approfondimenti non superficiali.

Roberto Arditti domenica ha affrontato l’argomento ricordando le tesi di chi sostiene che il taglio determini l’inefficienza nei lavori parlamentari; l’impoverimento della pluralità politica e quindi della rappresentanza democratica; risibili risparmi per il bilancio dello Stato.

Ha poi argomentato che le aspettative dei cittadini si siano spostate sull’elezione diretta del sindaco e del presidente della regione; che sul territorio i partiti siano di fatto inesistenti; che la rivoluzione tecnologica richieda necessariamente una diminuzione della forza-lavoro di Camera e Senato.

Ha risposto ieri Stefano Vespa argomentando, anch’egli fondatamente, che sindaci e consiglieri regionali non possono sostituire il potere legislativo; che attiene proprio ai partiti il compito di creare una classe dirigente; che la soluzione dei problemi ha bisogno di contatti umani e non di algoritmi.

Cerco di offrire il mio contributo dicendo subito che, secondo me, non ci sono alternative alla riduzione. Le ragioni mi sembrano innumerevoli e provo ad elencarle in modo schematico:

1. La produzione legislativa attuale è costituita quasi al 70 per cento dal recepimento delle normative europee mentre meno del 20 per cento dei provvedimenti è di iniziativa di deputati e senatori.

2. Il ruolo dei parlamentari, marginale anche prima del 1994, oggi è ancora più residuale nella formazione del testo legislativo, affidato a volte a qualche indirizzo di partito, tanto alla mediazione delle lobby e molto alle tecniche degli uffici giuridici.

3. I compiti sono stati stabiliti nel contesto politico, storico e culturale di oltre 70 anni fa, plurisuperato.

4. La quantità dei rappresentanti del popolo è, in genere, superiore alla media europea. Infatti, in Germania (83 milioni di abitanti), il Bundestag ha 709 rappresentanti; in Francia (67 milioni) il Senato ha 348 membri e l’Assemblea Nazionale 577; nel Regno Unito (67 milioni) la Camera dei Comuni ha 650 componenti a cui si aggiunge – ma è ereditaria o per nomina – la Camera dei Lords (773 + 22); in Spagna (47 milioni) la Camera ha 350 membri e il Senato 265. L’Italia (60 milioni) ha 630 deputati e 315 senatori più, attualmente, 6 a vita. Con la riforma diventerebbero 400 alla Camera e 200 al Senato.

5. Le competenze degli eletti si potrebbero desumere da due indicatori: il titolo di studio e la conoscenza culturale. Nel 1948 i laureati alla Camera erano il 91.4 per cento mentre nel 2018 sono il 69.21, a fronte dell’aumentato grado di istruzione in questo lungo arco di tempo.Le qualità culturali vengono evidenziate, al di là di ogni ragionevole dubbio, nelle dichiarazioni personali oppure documentate in trasmissioni come le “Iene”. Non sono rari gli esempi di ministri che hanno comunicato titoli di studio non corrispondenti al vero oppure accusati di avere prodotto tesi di dottorato non originali. Nei paesi di cui al punto precedente, sospetti del genere hanno dato adito a dimissioni immediate.

6. La qualità della rappresentanza emerge anche dal loro impiego nell’esecutivo. Elemento considerato trascurabile ma solare. Nel governo precedente a questo, il Presidente del Consiglio e i ministri degli Esteri, dell’Economia, della Difesa cioè posizioni chiave dello Stato erano tutte ricoperte da esponenti individuati fuori dal Parlamento. Lo stesso attuale Presidente della Repubblica, e non è la prima volta, non era all’epoca della elezione un eletto.

7. I metodi di selezione sono un fattore centrale. Dal 1991 si è registrata una progressiva riduzione della possibilità di espressione dei cittadini, giungendo alle liste bloccate, dove i partiti già individuano in partenza gran parte degli eletti. È un sistema talmente affidato in esclusiva alle segreterie di partito tanto che nel giugno del 2018 Beppe Grillo, a ridosso del trionfo dei 5 stelle, ha proposto di individuare gli eletti per sorteggio, come nell’antica Grecia. Infatti, se scelti con le regole attuali, davvero “uno vale uno”.

8. Un tema costantemente eluso, ma che andrebbe seriamente approfondito, è il rapporto che esiste tra abbandono dei territori da parte della politica nazionale e penetrazione criminale nei comuni, aumentata esponenzialmente nell’ultimo quarto di secolo;

9. I costi sono fondamentali. Rispetto al bilancio dello Stato incidono poco (80 milioni, pari allo 0,007%) ma contano enormemente per riavvicinare la politica ai cittadini. Infatti, i costi della democrazia italiana non corrispondono a nessuna utilità sociale, nessuna ragionevolezza e nessun confronto con il resto del mondo. Anzitutto, sono proprio le altissime retribuzioni che determinano l’individuazione di una classe politica inadeguata, che ha come principale obiettivo il mantenimento di queste rendite.

Classe politica che, per evidenti ragioni di opportunità, determina a sua volta gli emolumenti delle categorie più prossime: dai grand commis dello Stato agli uscieri dei Palazzi del Potere, dai magistrati agli alti gradi dell’esercito e delle forze di polizia.

In questo modo si anestetizza il sistema, rendendo impossibili cambiamenti strutturali, per quanto molto complessi nei regimi democratici. Ritengo, pertanto, che attraverso le corresponsioni economiche si basi nel nostro Paese l’autentico equilibrio dei poteri, per come individuato da Montesquieu nel Settecento.

Inoltre, ogni riduzione dei costi nelle organizzazioni comporta l’ottimizzazione delle risorse. Marcello Altamura ha, invece, dimostrato che da quando è esplosa la polemica sulla “casta” nel 2007, la situazione è rimasta inalterata e, in molti casi, addirittura rafforzata. Infatti, sono stati prodotti esclusivamente provvedimenti dimostrativi.

In autunno un disagio sociale devastante potrebbe compromettere la stabilità delle istituzioni democratiche, per cui la riduzione degli stipendi degli eletti potrebbe rispondere non tanto a un obbligo morale ma a una necessità sociale. Non a caso in Australia e Giappone, Bulgaria e Grecia i rappresentanti del popolo si sono già da mesi ridotti lo stipendio. In Italia, lo ha annunciato Luigi Di Maio ma non è stato ripreso da nessuno e lui stesso non è più ritornato sull’argomento.

Sulla base di queste considerazioni invocare l’efficienza parlamentare e la rappresentanza territoriale significa fare riferimento a sacri principi che purtroppo non trovano alcuna corrispondenza nella realtà.

Pertanto, il referendum che prevede la riduzione degli eletti potrebbe costituire un’occasione per sceglierli meglio, essendo di meno.

Nel luglio 2018 Davide Casaleggio ha considerato “inevitabile” il superamento della democrazia rappresentativa, poiché le forme di partecipazione diretta potrebbero risultare più immediate nella società digitale che va costantemente dematerializzandosi.

Adesso, i luoghi del potere, dove si decide l’organizzazione sociale, possono perfettamente non essere fisici, limitando costi sempre più insostenibili comparati ai risultati. Ma i rappresentanti devono essere però assolutamente in carne e ossa, per cui si evidenzia la necessità di individuare rappresentanti di qualità. Perché questo è il tema centrale.

C’è bisogno allora di proposte coraggiose e inedite. Non sono in grado di valutare le conseguenze della reintroduzione delle preferenze multiple ma sono davanti agli occhi di tutti gli svantaggi delle liste bloccate, che non selezionano né i migliori né persone con eccessive competenze. E sopratutto non sono in grado di contrastare le infiltrazioni delle forze finanziarie fuori controllo e delle organizzazioni criminali.

Nella competizione politica globale del XXI secolo non possiamo permetterci una classe  politica nazionale che si improvvisi nei ruoli di ministro o di sottosegretario.

Per ora, sarebbe un successo ridurre il numero degli eletti, che di fatto sono in buona parte nominati. È vero che l’approvazione del referendum da sola non significa nulla ma certo non potrà peggiorare la situazione e porterà squilibri salutari negli odierni assetti di potere nei partiti e in Parlamento, costringendo sopratutto a porre mano a una nuova legge elettorale.

Non ci vuole la Sibilla cumana o etiope o somala per capire che, nell’eventualità, i parlamentari cercheranno principalmente di tutelare loro stessi poiché non esistono nella storia esempi di burocrazie che si siano autoriformate da sole.

Il tema è questo: se le forze del capitale finanziario hanno un reale interesse ad avere in Italia istituzioni politiche un po’ più efficienti potrebbero orientare il sistema mediatico ed economico per influenzare l’opinione pubblica verso scelte che le rafforzino.

Da Tangentopoli in poi, specialmente l’abolizione dell’immunità parlamentare e la legge Severino hanno irrigidito la selezione politica attorno a partiti quasi sempre personali trasformati in comitati elettorali, sganciati dagli effettivi interessi dei cittadini.

Non sono tante le occasioni per cercare di aspirare a un sistema meno diseguale e maggiormente rappresentativo. Il referendum forse potrebbe non farci rassegnare a un declino che sembra segnato poiché il mio punto di vista è che la crisi della democrazia sia essenzialmente la conseguenza della inadeguatezza della sua rappresentanza.

In definitiva, il referendum potrebbe costituire una piccola opportunità per tentare la difficile ricostruzione della democrazia in Italia. Una possibilità altamente improbabile ma necessariamente da perseguire. D’altronde, nei prossimi anni, non ne avremo altre.

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