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Sovranismo regionale? No, grazie. Il corsivo di Arditti

Abbiamo capito che sarà un autunno difficile, perché la pandemia non ha alcuna intenzione di mollare il colpo e il vaccino ha bisogno di tempo prima di diventare realtà. Abbiamo capito che dobbiamo riaprire le scuole ad ogni costo ma che avverrà in condizioni precarie (anche a causa della ataviche arretratezze delle nostre strutture, figlie di decenni di abbandono politico e finanziario), con possibile ritorno alla chiusura di molti istituti come sta accadendo in Germania.

Abbiamo capito che la crisi economica sarà dura e che per uscirne più vivi che morti sarà necessario usare al meglio i fondi europei, che però ci saranno messi a disposizione se e solo se saremo capaci di presentare progetti credibili e ben strutturati: quindi se faremo come a Genova per la ricostruzione del ponte e se non faremo come nel Lazio e in Abruzzo per la ricostruzione post terremoto del 2016.

A queste elementari certezze però se ne va aggiungendo un’altra che rischia maledettamente di complicare le cose, visto che sta assumendo caratteristiche vere e proprie di scontro istituzionale (il che non è di per se un male) a fronte di nessun risultato pratico: quindi un solenne buco nell’acqua. Mi riferisco all’emergente “sovranismo” regionale, fenomeno nuovo e di cattivo conio, figlio di ansia da prestazione politico-elettorale tendenzialmente capace di generare molta entropia e pochi risultati.

Si prenda il caso della polemica del governatore della Sardegna Solinas con il governo nazionale, tutta centrata sul tema dell’importazione del virus dal continente all’isola. Ebbene si tratta di polemica senza senso, per il semplice fatto che il turismo è parte insostituibile dell’economia regionale, quindi pretendere di distinguere tra contagiati autoctoni e generatori di contagio residenti in altre regioni è obiettivamente senza senso: la condizione di Sardegna come meta di vacanze è nelle cose, così come di interesse comune (e identico a Cagliari come a Roma o Milano) cercare di contenere i contagi.

Di dubbia ragionevolezza è anche la drastica presa di posizione del governatore siciliano Musumeci in tema di gestione degli hotspot dedicati ai migranti. Il governatore fa bene a chiedere massimo impegno al governo, ma non ha senso cercare di varare una politica sull’immigrazione a carattere regionale, mentre è noto che si tratta di una delega a tutti gli effetti dell’esecutivo nazionale. Quindi sul punto si può e si deve agire con maggiore risolutezza, ma ciò è possibile solo in collaborazione tra i vari livelli di autorità, perché tutto il resto serve solo ad ingolfare i terminali delle agenzia di stampa.

Sia chiaro, non sono solo a destra i governatori che esagerano.

L’ha fatto anche il presidente della Campania De Luca solo pochi giorni fa, dicendosi pronto a tornare al blocco della mobilità interregionale: dichiarazione tanto roboante quanto impraticabile in assenza di una decisione in tal senso di carattere nazionale (come il governatore sa benissimo).

Ecco allora il punto centrale, che va ribadito ora in modo perentorio. Abbiamo tanti problemi e di nuovi ne sorgeranno. Le regioni sono una risorsa innanzitutto per la loro capacità di stare più “vicine” ai cittadini ed in particolare alle fasce più deboli. Siccome però ci attendono mesi (e forse anni) difficilissimi dobbiamo anche sapere che c’è spazio per il confronto tra vari livelli istituzionali ma non c’è spazio per la nascita di “sovranismi” locali che finirebbero per creare disastri cui poi rimediare con enorme dispendio di tempo ed energie.

La pandemia con i suoi effetti devastanti sta mettendo a dura prova il mondo intero, squassando Los Angeles come New York, Mexico City come New Delhi, San Paolo come Teheran. Pretendere di gestirla con visione ristretta tra Cagliari e Sassari è ridicolo e (soprattutto) inutile.

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