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Terre rare, ecco come la Cina potrebbe colpire al cuore il Pentagono

La guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina continua a mettere a dura prova il tessuto economico della globalizzazione consolidatosi negli ultimi decenni.

Se da una parte la controversia sul 5G e l’offensiva contro il colosso delle telecomunicazioni Huawei sembra aver catalizzato, da più fronti, le frizioni commerciali e geopolitiche tra i due colossi, una più silente e non per questo meno decisiva lotta per gli equilibri mondiali futuri si delinea all’orizzonte: la guerra per i metalli rari. Dal cobalto al litio, passando per le terre rare, la riconversione energetica e la rivoluzione digitale sono destinate ad accrescere la domanda mondiale e a scatenare una corsa per accaparrarsi questi preziosi minerali e garantirsi una supply chain sicura e resiliente.

La crisi scatenata dalla pandemia da coronavirus ha certamente accelerato alcune tendenze pregresse, tra cui quella di ripensare nel complesso il modello di approvvigionamento di alcuni beni primari. Accorciare le catene del valore per ridurre l’esposizione e il rischio a future disruption, garantire uno stock di risorse essenziali (da quelle sanitarie fino alle materie prime) sono tornati ad essere priorità, se non imperativi strategici dopo un’epoca segnata dal just in time.

In questo scenario, l’amministrazione Trump ha rilanciato nell’ultimo anno la necessità di un’autonomia per gli Stati Uniti – che nel gergo di oggi diventa “sovranità mineraria” o “nazionalismo delle risorse” – nel settore dei minerali strategici, fondamentali per garantire la sicurezza e la piena operatività della sua base industriale, civile e soprattutto militare, in un contesto di crescenti tensioni con Pechino, principale esportatore mondiale.

Sul piano delle policy governative, l’attenzione delle agenzie federali sul tema è tornata con prepotenza, soprattutto su spinta della presidenza con l’executive order controfirmato nel dicembre del 2017. In questi tre anni e mezzo di amministrazione Trump, si sono susseguite diverse riflessioni e proposte sulle modalità con cui promuovere il reshoring delle attività estrattive e rivitalizzare un settore che fino alla fine degli anni Ottanta aveva mantenuto un saldo positivo in termini di quote di produzione e un expertise riconosciuta a livello mondiale. Oggi la Cina detiene il 67% della produzione mondiale di terre rare, una quota ridottasi a partire dalla crisi con il Giappone nel 2010 con l’ingresso di nuovi player. Tuttavia, è corrisposta una graduale scalata nei settori downstream, con Pechino che controlla i principali stadi di raffinazione e di manifattura di prodotti ad alto contenuto tecnologico, soprattutto i magneti permanenti (NdFeB) essenziali per gli armamenti del Pentagono dagli F-35 ai missili Javelin.

Le iniziative al Congresso, i finanziamenti concessi dal Pentagono all’azienda australiana Lynas Corporation e all’americana MP Materials e, più in generale, la richiesta di un governo federale più presente per supportare le aziende americane sono soltanto alcune premesse che, secondo gli analisti, non potranno nel breve periodo spostare gli equilibri di mercato. Una strategia “mine-to-magnet” richiede anni, se non decenni, per poter essere pienamente implementata. A poco servirebbe, inoltre, l’iniziativa dello scorso dicembre del Pentagono, che aveva ordinato di iniziare ad accumulare scorte in previsione di scenari di mercato instabili. Ed è in questa finestra temporale che il rischio può concretizzarsi.

Ad approfondire ulteriormente la questione, intervenuti al Technology Metals Show moderato da Tracy Weslosky sul sito InvestorIntel, Jack Lifton e Guillaume Pitron.

Jack Lifton è tra i principali esperti a livello mondiale di terre rare, oltre ad essere riconosciuto consulente sui fondamentali di mercato che riguardano i technology metals, termine da lui coniato all’inizio degli anni Duemila per descrivere quei metalli strategici le cui proprietà elettroniche li rendono essenziali per l’economia moderna e la società dell’informazione. Guilleume Pitron, affermato giornalista francese, è un esperto di geopolitica dei metalli rari e autore del libro La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale (2019).

Nell’evento dal titolo “The Rare Earths War” i due esperti sono intervenuti per commentare l’attuale scenario internazionale. Guillaume ha osservato come Donald Trump sia stato il primo presidente nella storia recente degli Stati Uniti ad affrontare di petto la situazione. “Se venisse rieletto”, ha aggiunto, “io credo che questo avrà un buon impatto nell’orientare la produzione americana di terre rare e dei metalli [a essi associati]”.

Jack Lifton ha aggiunto inoltre come Trump sia stato, nella sua lunga carriera, “il primo presidente a ripensare la globalizzazione e a deglobalizzare minerali cruciali per la sicurezza degli Stati Uniti”. Sottolineando l’importanza strategica della supply chain che li vede fortemente dipendenti dalla Cina e confermando il grado di penetrazione di Pechino nel mercato, Lifton ha citato l’esempio di Shin-Etsu e Hitachi: i due colossi industriali hi-tech giapponesi, che riforniscono gran parte dei magneti per le forze armate americane, vedono gran parte della loro produzione delocalizzata in Cina.

Inoltre, secondo Lifton – e qui viene sganciata una vera e propria “bomba” – la Cina sarebbe pronta a tagliare i rifornimenti per Northrop Grumann, l’azienda di punta dell’industria bellica americana, dei preziosi rare earth materials. “Quello a cui gli americani non sembrano prestare attenzione”, prosegue l’esperto, “è che Grumann è il produttore degli F-35, i più grandi mezzi di superiorità aerea della storia. Grumann necessità di quelle terre rare per costruire i velivoli. Questo potrebbe gettare un enorme pressione sul dipartimento della Difesa”.

Si tratta solo di una suggestione? Che la Cina possa fare delle terre rare nuovamente uno strumento geopolitico nell’attuale guerra tecnologica è uno scenario possibile, come ha di recente rivelato un think tank e come conferma il precedente con il Giappone ormai un decennio fa. Appare tuttavia improbabile che un eventuale amministrazione democratica possa de-sensibilizzarsi su una questione che al Congresso ormai raccoglie un crescente consenso bipartisan, specialmente per le sue ricadute sulla sicurezza nazionale e sull’industria della difesa americana.

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