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Oggi più che mai, perché onorare la memoria di Cossiga. Scrive il prof. Valori

Senza memoria non c’è futuro, è cosa nota, ma vivere, come sonnambuli, senza memoria andando verso il baratro è certamente peggio, ed è quello che ci sta accadendo. Mi viene qui in mente un discorso di Cossiga del 1991, quando il Presidente parlò del Parlamento “fazioso e banditesco” e “prono a tutte le pressioni”. Non è cambiato nulla, ma oggi è tutto più grave. Quindi, riforma istituzionale, ma non come quella organizzata da un boy-scout.

Bicameralismo, perché la dualità favorisce la rappresentanza, non la ripete o la rende ridondante. Però, dando a ogni Camera diverse funzioni. In un caso, una delle due assemblee potrebbe avere la funzione di controllo finanziario o di bilancio, mentre all’altra potrebbero essere attribuite funzioni ispettive, come nell’ordinamento britannico. Senza dimenticare, nel suo discorso del 26 giugno 1991, che la riforma sarebbe dovuta essere costituzionale. Cambiamento della forma di Stato, di quella di governo, grande modifica dell’autonomia della magistratura per poi passare ad un sistema maggioritario.

Poi, in ambito parlamentare, la sostanziale abolizione del voto segreto. E, da non dimenticare, proprio oggi, l’eliminazione di tantissimi decreti “omnibus”, poi ancora il rafforzamento del potere del presidente del Consiglio, e tanto ancora che non mi ricordo dalle sue lunghe discussioni. L’utopia è, talvolta, l’unica saggia realtà, lo diceva Francesco. Cosa voleva Cossiga, da queste ipotesi di riforma? Stabilizzare il Paese, in un contesto di quasi-simultaneità tra Trattato di Maastricht, Caduta del Muro di Berlino e riforma della Nato, un mix che avrebbe distrutto un toro.

Ora che le commissioni bicamerali le fanno un tanto al chilo, si dovrebbe ricordare che la prima grande bicamerale la si fece dopo le esternazioni di Cossiga del 1991. Ma sappiamo davvero dove siamo arrivati? Circola, al desk italiano Ue, molto confidenziale, un appunto secondo il quale l’Italia potrebbe uscire presto dal G7.

Certo, 27 anni fa Cossiga interrogava la classe politica sulla “perdita di identità delle istituzioni”. Chissà cosa avrebbe detto oggi. Sicuramente, se il pericolo che vedeva Cossiga era la separazione tra istituzioni e massa, quelle masse che, come disse Calamandrei, “hanno murato la Costituzione con il sangue” oggi il pericolo è ben superato.

Istituzioni e Pese sono orma lontani, e non so quale disastro potrà riconnetterli insieme. Certo, l’attuale Conte 2 è ben controllato dal Presidente Mattarella, ma niente è certo, oggi. Bisognerebbe rifarsi a uno degli ultimi libri di Francesco, “Fotti il potere!” dove ci sono termini e valutazioni che oggi sono utilissime: la democrazia è in realtà un’aristocrazia che si forma indipendentemente dalle elezioni e che però nelle elezioni trova la propria consacrazione.

Ecco un primo livello, teorico, di riforma dello Stato. Poi, occorrerà pensare ai singoli settori. Per la Giustizia, ripeterei l’idea fondamentale di Cossiga: il sorteggio dei membri del Csm. E l’efficacia materiale del Presidente della Repubblica sugli atti del Csm. Per la rappresentanza parlamentare, bipartitismo, lo abbiamo detto, ma con differenze funzionali. Per la politica estera, un centro decisionale che unisce ministero, presidenza del Consiglio, Servizi. E per i Servizi, finirla con questa riforma del 2007 che permette anche a una pispoletta, arrivata ministra per numerose presenze televisive, di proporre il suo Carabiniere locale, emiliano, come prossimo Capo del Dis. Piuttosto, il Servizio è l’anima della politica estera: l’essenza dello Stato, la sua funzione somma, la chiave del suo funzionamento.

Pensare a una nuova configurazione dei Servizi, senza passare al mito del Servizio Unico, peraltro scioccamente evocato dal grande acquisto dell’immobile di Piazza Dante, con immenso pericolo per la sicurezza dei funzionari. Ovvero: far rimanere separate le “agenzie” ma raddoppiarle di peso, funzione e raggio d’azione.

Evitare ab ovo il placet della magistratura, altrimenti è come rendere pubbliche le operazioni prima che abbiano luogo. La direzione dell’economia pubblica, oggi piena di incentivi talvolta a capocchia, si pensi al bonus per i monopattini, che infatti favorisce l’industria cinese, deve essere ricondotta a una struttura autonoma che fa riferimento ai ministeri preposti.

Niente economisti da quattro soldi, niente personaggi che credono alla “soddisfazione del cittadino” come se questi dovesse comprare un fustino al posto di due. Per il coordinamento di quella privata, istituire un Centro, formato da Imprese e dirigenti di Stato, che coordini le questioni. Poi, le Università: da ristrutturare radicalmente. Certo, basta con la sceneggiata dei credits, ma occorrerà ridurre il numero degli atenei. Inutile distribuire lauree piuttosto farlocche a tutti, per gonfiare l’ego dei semicolti.

Casomai, aumentare il numero dei centri di eccellenza, nei vari settori dello scibile. Insomma, rafforzare la sicurezza delle strutture pubbliche, ma anche ricostruire la carriera e il prestigio dei grandi commessi di Stato. La funzione è l’uomo. Basta con le carriere di Stato costruite con le amicizie tra le mogli, o con la frequenza alla stessa parrocchia. O anche nello stesso club esclusivo, non cambia la natura della cosa. Ma, soprattutto, occorrerà definire, sulla base di criteri storici e morali, la regolamentazione del rapporto tra politica e denaro.

Certo, si tratta qui anche della corruzione, che appare oggi come uno dei grandi “tormenti” delle classi politiche contemporanee, sotto ogni sole. Come si fa? Monitorando i redditi degli eletti? Troppo semplice. Magari sarebbe meglio controllare, anche con operazioni di “intelligence”, le reti di affari che operano intorno alla Camera dei Deputati e al Senato. Ma, comunque, occorrerà ricostruire le reti del Servizio in Italia e, soprattutto, fuori, oggi il ruolo della nostra politica estera e dei Servizi è ridotto a zero. E questa è la vera fine dello Stato.


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