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Perché Zaia non sarà il Doge della Lega. Parla il prof. Campi

È scontro ai vertici della Lega o è solo suggestione? La popolarità del “Doge” Luca Zaia infastidisce realmente il leader della Lega Matteo Salvini? L’ottima gestione dell’emergenza pandemica e il crescente consenso anche extra regionale del governatore possono essere elementi che minano il consenso per il Capitano? Nel pieno del dibattito sul centrodestra appassionano i temi che riguardano la vita e la guida (attuale o rinnovata?) del Carroccio.

Da più parti si dice e si scrive che Zaia stia “studiando” da leader e che abbia tutte le carte in regola per farlo. A ridimensionare le malelingue è Alessandro Campi, politologo e docente all’Università di Perugia. L’analisi che propone si incardina sostanzialmente su un fattore: il forte radicamento territoriale di Zaia alla sua regione, al suo elettorato.

“Reputo improbabile che il governatore del Veneto possa dare l’assalto alla Lega – spiega il docente – e credo seriamente che la contrapposizione fra Zaia e Salvini sia più che altro alimentata dai media. Il fatto che Zaia sia popolare nella regione che in maniera eccellente sta amministrando, così come la visibilità anche a livello nazionale, non gli garantiscono comunque la forza politica necessaria per poter scalare il Carroccio”.

Campi sostiene che il Doge sia più che altro “un venetista”. Il Veneto, dice, “si è sempre caratterizzato per aver fornito alla Lega dei leader che si sono concentrati sul loro territorio e non hanno mai avuto egemonia extra-regione. Il fatto che Zaia venga usato da Repubblica contro Salvini è la conferma che sia una cosa strumentale per dare addosso all’ex ministro dell’Interno”.

Insomma, a detta del politologo alla testa del Carroccio “c’è sempre stato storicamente un lombardo. E così continuerà ad essere”. Sulla figura di Matteo Salvini, l’analisi di Campi è ambivalente. “Salvini è un uomo che ha preso un partito al 4% e lo ha portato ad essere, di fatto, lo schieramento più votato in Italia – spiega il politologo.

Ora, “è comprensibilmente in crisi. D’altronde si tratta di un uomo abituato a calcare il centro della scena con un martellamento continuo e sistematico, con una presenza ossessiva sulla scena pubblica che all’improvviso si è visto spiazzato da una questione più grande di lui e che ha catturato l’attenzione di tutti gli italiani. In più, il Paese impaurito si è stretto attorno a chi governava: Giuseppe Conte“.

Certo, in queste condizioni “anche fare opposizione non è stato certo facile”. Oltre al fatto, aggiunge Campi, «che il tema dell’immigrazione sul quale la Lega ha costruito gran parte della sua fortuna in termini elettorali, è tornato di strettissima attualità solo pochi giorni fa».

Quindi un po’ “l’eccesso di sovraesposizione mediatica”, un po’ “un naturale effetto di saturazione” hanno generato il calo di consenso che Salvini pare stia subendo. Sul piatto poi, c’è una “grande sfida persa: il lancio della Lega come partito nazionale e non più solo del Nord”. E su questo l’analisi del politologo sfiora la ‘genetica’ – politica s’intende – di quello che fu il movimento ideato da Umberto Bossi.

“Soprattutto al Sud – incalza Campi – l’idea che la Lega potesse diventare un partito nazionale non ha retto. Non ha retto perché prima di tutto è mancata l’articolazione – a tratti leninista – che caratterizza la Lega. Ma soprattutto è andato annacquandosi il sistema di selezione dei gruppi dirigenti che, nel Carroccio, è sempre stato ferreo”. Al Sud i leghisti hanno dovuto raccogliere “terze file, ex forzisti ed ex missini (An) che non sono stati in grado di reggere la sfida”. A questo si aggiunge che “il dna della Lega è sempre stato legato al Nord. Il cuore batte lì. Così come il grosso dell’elettorato non lo si trova certo lì”.

In politica estera, osserva il docente, Salvini “ha sbagliato nella collocazione della Lega. Ci sono stati degli ondeggiamenti che lo hanno penalizzato moltissimo a livello personale. Anche l’elettore che non si interessa di politica internazionale ha percepito una sorta di isolamento politico, che peraltro la dice lunga anche sulle ambizioni di Salvini come leader di governo. L’Italia è comunque inserita in una cornice di rapporti internazionali che o in un senso o in un altro vanno coltivati”.

La Meloni invece “ha cercato in Europa alcuni agganci importanti, coltivando rapporti interessanti. Peraltro, FdI si è identificata con i conservatori e non con i populisti come la Lega. Sono aspetti tutt’altro che irrilevanti che contribuiscono al credito che la Meloni sta riscuotendo a più livelli”. Con questi presupposti è evidente che la leader del partito di destra “sembra un interlocutore più affidabile. Molti voti di Salvini adesso sono stati travasati alla Meloni”. Anche in questo senso però, ci vuole un occhio di riguardo.

“Le crescite esponenziali nei sondaggi vanno documentate – chiude Campi – . Uno specchio di verità saranno le regionali”. Onore al merito però per l’operazione che Meloni ha fatto di ricompattamento di un universo che si era disperso dopo l’affaire Fini-Berlusconi, con tappa a Montecarlo. “Senza dubbio Giorgia Meloni ha rimesso assieme il mondo che si era disgregato dopo la vicenda drammatica di Fini. Lei ha ricomposto quel mondo che aveva provenienze missine e di An che si era perso in personalismi e mille rivoli. Ma lo ha fatto non solo partendo dai colonnelli, ma partendo dall’elettorato”. Un’operazione che, oggi più che mai, sta dando i suoi frutti.

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